a cura di Matteo Moca
Siamo giunti al secondo appuntamento di Debuttanti, la rubrica che, con una cadenza non definita, va a curiosare tra le maglie delle nuove scritture e commenta gli esordi di autori italiani, segnalando di volta in volta una serie di libri potenzialmente interessanti. Gli esordi, è ovvio, sono molti ogni mese, di conseguenza questo spazio non pretende in alcun modo di coprire l’ampiezza di queste uscite, ma si affida, com’è naturale che sia, alle preferenze e alle predisposizioni di chi scrive.
Bernardo Zannoni, I miei stupidi intenti (Sellerio)
Il libro d’esordio del venticinquenne Bernardo Zannoni è un romanzo dalla caratura straordinaria, nutrito di un’eccezionale tracotanza giovanile che sembra però trasfigurata e addolcita dal mondo saggio e simbolico della fiaba e del racconto antico (basti pensare per esempio agli orizzonti dell’Antico Testamento che sembrano prefigurarsi in alcuni momenti del racconto). Diversi sono i luoghi di interesse di questo romanzo, il punto di vista eccezionale dello sguardo del narratore, una faina, la capacità di descrivere il mondo naturale e animale, la violenza della lotta per la sopravvivenza che tristemente rimanda alla mente le vicende umane, ma anche un inesauribile desiderio spirituale, un’interrogazione sull’esistenza di un ordine superiore da ricercare nella vita quotidiana. Protagonista e voce narrante di I miei stupidi intenti è la faina Archy, che dopo essere diventata zoppa, e quindi non più utile alla famiglia, viene venduta dalla madre in cambio di una gallina a una volpe, Solomon. La volpe è uno dei personaggi più luminosi di questo romanzo, poiché permetterà ad Archy, al quale è legata da un rapporto duale che pare replicare la relazione mistica tra maestro e discepolo, di conoscere, o quantomeno avvicinarsi, ai misteri del mondo e all’interrogazione sulle domande ultime (“Chi siamo?”, “Dove andiamo?”, “Cosa ci facciamo qui?”) che scardinano l’ambientazione animale per trasformarsi in maniera impercettibile e violenta in domande inaggirabili per ogni essere vivente. Proprio nell’interrogarsi sullo scarto tra uomo e animale risiede probabilmente una delle chiavi di lettura di questo libro, dove emerge come l’istinto di sopravvivenza e il desiderio vitale di sopraffazione del mondo animale non siano troppo lontani dalle leggi che regolano le relazioni tra gli uomini, ma anche di come esistano lampi di luce e di speranza complicati da raggiungere e pensare ma assolutamente decisivi per un’esistenza diversa e certamente più compiuta: «Mi fu chiaro – pensa Archy – che il mondo non odia nessuno, e se è crudele, è perché noi siamo crudeli. Dio non aveva commesso altro errore se non quello di averci voluto partecipi, uomini e animali insieme. Mi assolsi, e feci pace con chi mi aveva ferito, perché al di fuori delle nostre teste, ogni dolore non ha peso: perché il male non esiste».
Filippo Polenchi, Figlio fortunato (66thand2nd)
Il romanzo d’esordio di Filippo Polenchi è una macchina narrativa complessa che mette in luce l’accortezza letteraria dello scrittore e l’attenzione per una serie di temi di difficile gestione in un romanzo ma che qui trovano un preciso ed esatto posizionamento. Figlio fortunato è ambientato in un’immaginaria e reale città di provincia, Anapola, composta da elementi che ne fanno il simbolo di un ambiente periferico comune, dove un gruppo di persone viene sconsquassato dalla morte del piccolo Elio Lavatori, il più giovane erede della famiglia a cui si attacca tutta la città per una sua sopravvivenza. I Lavatori sono proprietari dell’azienda agricola che garantisce lavoro agli abitanti di Anapola, l’unico motivo per cui è possibile prestare attenzione a questo isolato luogo mentre si corre sulla provinciale, e con la morte di Elio sembra tramontare qualsiasi speranza per il futuro. Ma alla tragica morte di Elia si contrappone l’esistenza di Giona, il protagonista del romanzo, tornato da Roma dopo la dissoluzione dei suoi sogni di gloria come regista, che sente, nell’albergo fatiscente dei genitori dove torna a vivere, una sorta di chiamata, l’invito a fare qualcosa, la possibilità che quel figlio fortunato, ora che non c’è più Elio, possa essere lui. Vicino alle teorie di Mark Fisher rispetto alle aspettative che possono nutrire l’aspettativa per il futuro (che Polenchi ringrazia «in maniera naif, inascoltata e commossa»), Figlio fortunato è una violenta diagnosi sul nostro stato sulla terra, sulla potenza devastante delle aspettative famigliari e sociali, sulle traiettorie emotive che genera il dolore (in particolare nel personaggio grandioso, decadente e angelico della madre di Elio), sui vuoti che abitano l’animo di chi soffre e su cosa significa vivere nella provincia, intesa come luogo di nebbioso isolamento.
Vanni Bianconi, Tarmacadam (nottetempo)
Vanni Bianconi, poeta e traduttore, con questo volume fa il suo esordio nella narrativa e pare, leggendo i ventuno frammenti che compongono Tarmacadam, che tra l’attività poetica e quella narrativa esista un legame inscindibile, segno del lavorio di Bianconi sulla parola per svelarne i luoghi nascosti e magici. I vari capitoli partono infatti sempre da una parola, da un suono, per aprirsi poi ai misteri del racconto, alla funzione primigenia delle storie come modalità per scavare nel mondo e scoprirne i significati. Nella nota introduttiva Bianconi cita François Jullien che scrive di come «il mondo a venire [debba]situarsi tra-le-lingue: non dovrà avere una lingua dominante, qualunque essa sia, ma una tradizione che attiva le risorse delle lingue mettendole in rapporto tra di loro». Questo accade in Tarmacadam che è tanto figlio dei viaggi e degli spostamenti di Bianconi (da Ambrì a Londra, da Saint Lucia a Berlino, da San Paolo a Tbilisi), quanto direttamente legato alle forme invisibili che legano le lingue tra loro. A partire dagli eteronimi, parole etimologicamente diverse che denominano però entità prossime per natura, dallo spostamento sonoro che designa una vicinanza semantica, Bianconi racconta se stesso che, grazie al suo lavoro, si trasforma ugualmente in racconto linguistico. Parole ascoltate, fuse, trasformate e scartate ricoprono proprio il ruolo di protagonisti, parole che nel recupero dell’autore e nella relazione con la vita assumono un nuovo suono e una nuova natura, aprendo, ancora una volta, ai misteri del linguaggio e, quindi, della vita.
Niram Ferretti, La luce del regno (Giuntina)
Mattia Almiti, protagonista del romanzo d’esordio di Niram Ferretti, è un professore di storia dell’arte che mentre sta scrivendo un saggio sui movimenti e le traiettorie del concetto di bellezza nell’arte contemporanea, si trova a interrogarsi sugli avvenimenti della sua vita: Amiti ha a poco più di cinquant’anni quando si accorge che il cumulo delle esperienza dell’esistenza è «già sufficientemente alto da poterlo intravedere chiaramente in lontananza» e quindi si sente chiamato a ricercare se stesso nel passato per aprirsi a un futuro più consapevole. La luce del regno assume le forme oblique di un romanzo di formazione narrato però in maniera retrospettiva, distaccandosi da una sorta di racconto memorialistico proprio per la nuova linfa e i nuovi ragionamenti che ripercorrere la vita del passato garantisce al protagonista. Le difficoltà che hanno costellato il suo rapporto con la madre, la separazione della moglie, la morte del giovane allievo, folgorato da Rembrandt, che era diventato il suo compagno, sono tutti elementi dolorosi dell’esistenza che si incrociano con le esperienze degli altri personaggi che popolano il romanzo, sparsi per luoghi diversi del mondo. C’è poi la presenza decisiva dell’arte, il rapporto complesso e cruciale con il popolo ebraico e la sua cultura e l’idea della vita come un alternarsi di morte e rinascita, di buio e di luce, di gioia e di sofferenza. «Non abbiamo permesso che la morte avesse l’ultima parola ad Auschwitz, a Treblinka, a Dachau. Abbiamo continuato a vivere e, nonostante tutto, a rinnovare l’ascolto, a perpetuare la voce del Sinai come abbiamo sempre fatto, in mezzo alle macerie» dice uno dei personaggi, Bernheim, al protagonista, racchiudendo forse il significato ultimo di questa storia ben esemplificato dall’opera d’arte che dà il titolo al romanzo, capace di far persistere sempre un lampo di luce tra le macerie dell’umanità e, quindi, anche delle singole esistenze.
Giovanna Ghidetti, Le gioie del sanscrito (Neri Pozza)
Non è un romanzo, né è probabilmente considerabile fino in fondo un esordio, ma il libro di Giovanna Ghidetti, esperta di sanscrito, collaboratrice a lungo e per diverse opere di Adelphi, è un’opera particolare che merita attenzione anche per il suo valore latamente narrativo. Le gioie del sanscrito, libro ricco di ironia e sempre guidato da uno sguardo preciso e specialistico, potrebbe essere definito come un memoir atipico nel quale l’autrice ripercorre il suo rapporto con il sanscrito, raccontando i primi approcci alla lingua e poi percorrendo nei diversi capitoli le forme e la storia di questa lingua, nonché il lascito di alcuni importanti studiosi. “Atipico” perché, in fondo, l’attenzione di Ghidetti è principalmente dedicata alla lingua (con la presenza anche di un importante glossario finale, di una guida alla pronuncia e di un capitolo dove si scopre la relazione tra alcune parole dell’italiano e altre in sanscrito), ma leggendo il libro ci si accorge di come raccontarla sia per l’autrice anche un modo per raccontare se stessa e per mostrare come lo studio e la conoscenza del sanscrito, diversamente da quanto ci si potrebbe aspettare, non sia un’attività fine a se stessa, ma rappresenti, tra le altre cose, un modo per provare a ricongiungersi alle origini della lingua e ai misteri del nominare.