Una creatura tutta ammaccata
di Federica Gianni
Davide Orecchio
IL REGNO DEI FOSSILI
€ 21, pp. 290,
il Saggiatore, Milano 2019
Davide Orecchio è un autore che volge il suo sguardo all’indietro, fa i conti con la storia e usa i documenti come strumenti essenziali che porta sempre con sé, anche se li corrompe continuamente con la finzione. La storia, la memoria, i rapporti tra dato reale ed elemento immaginario sono costanti che ritornano sempre nei suoi lavori. E ritornano anche nel Regno dei fossili, ultimo ambizioso e visionario libro di Orecchio, in cui lo scrittore sceglie di soffermarsi su un personaggio chiave, un “uomo-metafora” della storia italiana, come l’ha definito Massimo Franco: Giulio Andreotti. Orecchio ricostruisce la vita del politico attraverso i suoi diari e i libri di Giorgio Galli e Massimo Franco, selezionando dal denso, aggrovigliato e complesso bacino biografico di quest’uomo due fasi emblematiche della sua vita politica: la prima, che si rifà al biennio 1947-1948 in cui Andreotti muove i suoi primi passi nella Dc, allaccia i rapporti con De Gasperi e l’Italia entra a far parte del Piano Marshall; la seconda, che coincide con gli anni dal 1976 al 1979, segnati dal sequestro Moro e dal governo della non sfiducia appoggiato dai comunisti.
Una biofiction su Andreotti dunque? Solo in parte. Il romanzo, infatti, si costruisce su una doppia struttura parallela in cui l’esistenza del politico scorre al fianco di un’altra vita, quella di Albina che da bambina, investita da un’auto, subisce un’operazione; il nonno, guardando il suo corpo ferito, le dice che sembra quello di Giulio Andreotti e quello dell’Italia che lui ha costruito: “né guarita né sana, tutta ammaccata”. Albina, diventata adulta, si innamora di Simone, orfano di genitori comunisti, come lei studente di storia, che sta cercando, senza successo, di scrivere una tesi su Giulio Andreotti. Contemporaneamente la donna inizia una relazione torbida anche con un professore di storia, una figura volutamente ambigua, un padre o un amante morboso (saremo noi lettori a deciderlo), ossessionato da Albina e da questo rapporto tormentato che lo annienta, spingendolo a compiere gesti folli. Sono tutti individui paralizzati perché condannati a fare i conti con le loro memorie, sospesi in un limbo in cui il passato è eternamente presente.
All’apparenza niente sembra legare questi personaggi a Giulio Andreotti, ma in realtà c’è un filo nascosto: sono creature che non hanno più alcun orizzonte d’azione nelle loro vite perché ingabbiati in un tempo sospeso che rappresenta quel purgatorio italiano di cui Giulio Andreotti è stato il custode ed il simbolo. Albina, Simone e il professore si misurano con la storia, la studiano o la insegnano – sono tutti e tre dediti agli studi storici – , ma al tempo stesso ne sono pesantemente attraversati. Sono sia figli di quell’Italia che esce frantumata dai governi Andreotti, sia eredi di quella sinistra che quest’ultimo ha sconfitto; non a caso Simone dice dei propri genitori “erano comunisti… perciò sono morti… la loro storia è pure morta, quindi io che studio la storia studio… la morte”. A Orecchio non interessa però rappresentare il politico come un belzebù, e in questo lo libera dagli stereotipi, senza però risparmiarlo dal fare i conti con le proprie responsabilità. Emerge chiaro nel testo il pensiero dell’autore a tale proposito: Andreotti è stato tra i responsabili di quel disfacimento dell’Italia che ha reso il nostro paese una creatura “ammaccata”, come ammaccato era il corpo di Albina quando è stata investita, come lo sono tutti i personaggi di questo libro e forse, ci suggerisce Orecchio, come lo siamo anche noi.
Il regno dei fossili è, di fatto, un libro che si interroga su ciò che quest’uomo ha lasciato nel tempo, nelle generazioni di chi ha vissuto la sua parabola politica, ma anche di chi ne percepisce ancora l’ingombrante eredità. La storia per Orecchio è un atto continuamente presente nella nostra coscienza, ed è impossibile tentare di districare i ricordi personali dagli eventi storici, la memoria individuale da quella collettiva, perché si fondono sovrapponendosi continuamente nelle pagine di questo libro, così come dentro ciascuno di noi.
Nel Regno dei fossili, come in tutti i testi di Orecchio, il documento è un innesco imprescindibile per avviare la scrittura, eppure qui, differentemente da Città distrutte (Gaffi, 2011) e Mio padre la rivoluzione (minimum fax, 2017), è l’immaginazione a prendere il sopravvento sulla realtà. Non solo perché i personaggi del libro, ad eccezione di Andreotti, sono tutti creature romanzesche frutto della fantasia dell’autore, ma anche perché nel romanzo si inserisce un elemento inedito che sposta l’asse del libro verso il piano della finzione più che della realtà: la fantascienza. Uno dei meriti di questo scrittore è stato, ed è, proprio quello di volersi confrontare con il genere fantascientifico, verso il quale la letteratura, in particolare quella italiana, si è sempre posta con sospetto e diffidenza. È stato un merito in quanto Orecchio aveva già esplorato i registri fantascientifici in Mio padre la rivoluzione, ed è un merito perché in questo testo il genere si impone con ancor maggior forza. La fantascienza, infatti, serve all’autore per mettere in scena le contraddizioni della Dc e le ambiguità dello stesso Andreotti nei confronti di Dio, del potere e della morte. Orecchio immagina che gli americani propongano al partito democristiano di aderire a un progetto di crioconservazione per assicurarsi la longevità da tenere segreto ai comunisti, un progetto che affascina Andreotti ma sul quale il politico mostra i suoi dubbi: “ma se in futuro solo i comunisti avranno la morte, saranno loro ad avere Dio e noi l’avremo tradito”. L’espediente fantascientifico viene usato, inoltre, per rappresentare su un piano universale la lotta contro il tempo e la morte. Lo scrittore, infatti, immagina che tutti i protagonisti di questa storia si rincontrino in una dimensione altra, con i corpi trasformati in involucri digitali, e possano scegliere quali ricordi rivivere e quali dimenticare in un futuro postumano in cui “il tempo della morte morì”.
Sembra che Orecchio voglia sfidare a duello addirittura il tempo (“il più ostile degli avversari, il più raffinato dei crudeli”, lo definiva in Città distrutte) in un corpo a corpo tra kronos e kairos che vede da un lato la cronologia sequenziale e oggettiva che ci permette di seguire dall’infanzia fino alla vecchiaia la vita dei protagonisti, e dall’altro quella circolare e soggettiva in cui il futuro è un tempo eterno fatto di ricordi.
Attraverso una scrittura emotiva, lirica e struggente il passato e il futuro, la storia e la fantascienza, il piano della concretezza e quello simbolico vengono addensati in un unico spazio, quello presente del testo. È lo stile a tenere le fila di questo organismo multiforme in cui la paratassi la fa da padrona e tempi e i modi verbali diversi convivono in uno stesso periodo disubbidendo alle regole di una scrittura più convenzionale. Noi che leggiamo ci troviamo a vivere un’esperienza multiverso che racchiude in sé innumerevoli dimensioni: quella politica, quella storica, quella poetica. Quello che ne risulta è un organismo complesso e imperfetto: a volte gli ingranaggi della macchina narrativa si inceppano, la trama in alcuni punti può risultare contorta, ma non importa perché il Regno dei fossili è un libro coraggioso che si interroga e ci interroga sulla nostra , lasciandoci con una domanda più che con un messaggio: come fare memoria del passato, senza soccombere di fronte a esso? La buona letteratura sa fare anche questo.
federica.gianni@hotmail.it
F. Gianni è dottoranda in scienze linguistiche e letterarie all’Università “La Sapienza” di Roma