recensione a cura della redazione online
Daniele Vicari
Emanuele nella battaglia
pp. 360, € 20,
Einaudi, Torino, 2019
Emanuele Morganti aveva vent’anni, faceva l’operaio e nella notte tra il 24 e il 25 marzo 2017 è stato ucciso a calci e pugni fuori da un locale di Alatri, picchiato senza motivo per essere intervenuto in una rissa. I membri del “branco”, per usare una delle etichette care al nostro giornalismo, si chiamavano Palmisani, Castagnacci, Fortuna, ma il loro nome ha lo stesso suono di quello dei fratelli Bianchi: Alatri e Colleferro sono separate da una manciata di chilometri, il tessuto sociale è lo stesso, identiche le dinamiche relazionali; i due omicidi, fatta eccezione per il movente razzista che ha portato alla morte di Willy Monteiro Duarte, si specchiano l’uno nell’altro e denunciano lo stesso, enorme problema culturale. È per questo che, rileggendo a circa un anno dalla sua pubblicazione Emanuele nella battaglia, l’esordio letterario del regista Daniele Vicari ora in finale al Premio Megamark 2020, si viene attraversati da una strana inquietudine. Il libro di Vicari, purtroppo, era una premonizione: l’omicidio di Morganti non è stato un fatto isolato o estemporaneo, ma piuttosto la manifestazione periodica di un germe incistato nella profondità delle nostre strutture sociali.
Daniele Vicari in questa vicenda ha un ruolo particolare. Originario di Collegiove, un piccolo paese nella provincia di Rieti, conosceva di vista Emanuele e la sua famiglia. Scrivere dell’omicidio, sottrarlo al tritacarne della cronaca e restituirlo a una dimensione più ampia, è diventato per lui un modo – l’unico, in effetti – per fare giustizia. Guidato da Melissa, la sorella di Emanuele che di questa storia è la vera protagonista, Vicari racconta con rispetto e attenzione cosa succede nella famiglia Morganti prima e dopo la morte del figlio, segue le fasi del processo, parla con gli amici di Emanuele, si reca sui luoghi del delitto, cerca insomma di districare la matassa e di far luce un’altra volta su quanto accaduto quella notte, ripercorrendola istante dopo istante, accompagnando Emanuele verso tutta la brutalità e l’insensatezza che lo attende. Ricostruendo i discorsi diretti e basandosi sulle testimonianze, con una scrittura sorprendentemente alta e pudica, senza mai far leva sulla partecipazione emotiva o suscitare indignazione a comando, Vicari si sofferma su tutto il grumo di omertà che scandisce le ore e i giorni successivi al delitto, ritorna sulle mezze parole, sulla vaghezza sospetta di alcune reazioni. Come a suggerire che il cosiddetto senso di comunità, molto spesso, è una lama a doppio taglio. Allo stesso tempo, e con sguardo critico, Vicari scava nel senso di cordoglio e di rabbia che monta in tutta la nazione, fa lo slalom tra le luci dei riflettori negli studi televisivi, gli inviati, il carrozzone in cerca dell’ennesima storia da impacchettare e dare in pasto al pubblico. Il dolore anabolizzato dei media in contrappunto al dolore autentico, spaesato e inesauribile di una famiglia.
In tutto questo, l’autore intreccia il racconto della morte e delle ore che la precedono a una riflessione di più ampio raggio, forte del suo background da regista cinematografico: quella intorno alla violenza promossa dai mezzi d’intrattenimento, al gangsterismo di massa che diventa moda ed estetica, alla “gomorrizzazione” di una certa fascia della cittadinanza. Con la delicatezza dei bravi narratori, Vicari riporta in superficie il passato di Emanuele, la passione per la caccia ereditata dal padre, la fidanzata, le uscite, i sogni e le esperienze di un’adolescenza normale. In questo modo riafferma un principio sacro eppure molto spesso violato dalla cronaca, che riduce le persone alla sola circostanza della loro morte: prima c’era una vita, c’erano degli affetti, una rete di rapporti umani, una tridimensionalità offesa per sempre.