dal numero di luglio 1987
A volte leggendo pagine culturali di quotidiani e settimanali accade di pensare “qui c’è qualcosa che non va”, ma è impossibile esprimere giudizi totalizzanti, come non è possibile emetterli sull’università, sull’editoria, insomma su tutte le aree culturali di questo strano paese, un po’ sconquassato, che è diventata l’Italia. Si possono solo isolare dei processi, delle direzioni pericolose: e qui si sceglie di riflettere sull’attività del critico giornalista, che a volte può anche essere la stessa persona che scrive meditati saggi su riviste; in tale caso però è solo l’attività critica in ambito giornalistico, cioè divulgativo, a essere tirata in causa nel nostro discorso. Il critico di giornale si sente ovviamente anello di congiunzione fra l’editoria e il pubblico: ma siccome l’editoria è un’attività industrial-commerciale, che ha quindi canoni volti primariamente al mercato e secondariamente al valore intrinseco del prodotto, come dire prima alla quantità e poi alla qualità, il critico, che presupponiamo serio e preparato, deve operare una selezione sulla massa di libri che riceve. E deve operarla da solo perché l’editore è uno strano commerciante, che non vuole o forse non sa distinguere fra lino puro e tessuto misto. In tale lavoro selettivo il critico è però condizionato più che dall’editoria dal punto di vista dei responsabili delle pagine culturali, che non sempre possono essere dei Cecchi o dei Pancrazi e a cui pertiene talora un’idea del pubblico non coincidente con la realtà del pubblico in questione. Il che si accentua soprattutto oggi, dato che viviamo un momento in cui il pubblico, in particolare modo quello costituito da giovani, mostra di desiderare libri di alta cultura in tutti gli ambiti del sapere; si può addirittura affermare che esiste un tipo di pubblico, di fruitore “forte”, che nelle sue scelte è più avanti e più in alto delle proposte giornalistiche.
In una recente relazione di Calcagno al Salone del libro di Torino si legge: «Il fatto nuovo, sul mercato italiano, che colpisce gli osservatori stranieri, è il rapido cambiamento avvenuto nella geografia dei “più venduti” […]. E in arrivo una nuova generazione di lettori, che cambia tutte le regole del gioco». Comincia a delinearsi allora la fisionomia di un critico di giornale che, a differenza dell’editore, privilegia la qualità sulla quantità, e a differenza dei committenti ha una propria graduatoria dei valori su cui operare l’informazione: alla domanda “si parla di X? Si parla di Y, autore non meno arduo di X?” egli risponderebbe con onestamente “sì”, ma questo non significa di per sé che egli abbia la possibilità di parlarne. Vi sono inoltre altre difficoltà collegate alle due categorie di spazio e tempo. Non è chi non veda come è sproporzionato lo spazio dato sull’informazione culturale rispetto a quella data a tutto ciò che fa solo spettacolo, sicché a volte la cultura sopravvive trasformandosi essa stessa in spettacolo o in certame, in gara ludica per ottenere accoglienza su una pagina (e non parliamo della Tv!).
Comunque il nostro critico giornalista, salvo alcuni pochi privilegiati, soffre sempre della pochezza di spazio, che lo obbliga a una prestazione ridotta, la quale a sua volta si risolve in parziale perdita di identità; e non parliamo dei settimanali, sempre più voluminosi e sempre più pieni non si sa bene di che. Poi entra in gioco la nozione tempo, così determinante nella prospettiva di quotidiani e settimanali, per i quali il mondo viene a configurarsi come una serie di primi piani dalla durata effimera: la persona o l’evento che fa notizia è oggi in primo piano, mentre domani in primo piano ci sarà altra persona o altro evento. Ciò è comprensibilissimo in un quotidiano che ha le proprie regole del gioco; ma ciò non toglie che sia sotteso un pericolo, e cioè che in questo mondo precario non vi siano delle cose più importanti di cui si parla, ma che le cose di cui si parla diventino le più importanti. Tale rovesciamento di ruoli può avere gravi conseguenze nelle pagine dedicate ai libri: in primo luogo esso porta a confondere la notizia con l’informazione, come se i criteri pertinenti alla cronaca (annunciare per primi una sparatoria) valessero per l’informazione culturale. Ecco allora che un settimanale non parla più di un libro perché ne ha già parlato un altro settimanale; oppure un quotidiano non recensisce più un libro importante perché ne ha stampato due pagine in anteprima; o dà la notizia di un congresso culturale prima che esso abbia luogo invece di parlarne a congresso avvenuto, quando si potrebbero offrire al pubblico gli esiti più nuovi; ma questi vengono dopo e quindi non fanno notizia.
Tale mania dei sorpassi temporali, tale dimenticanza del fatto che conta più parlare a fondo di un libro o di un evento di cultura che parlarne per primi è manifestazione grottesca di una crisi dei valori: nasce una gara al di sopra delle teste del pubblico, analogamente a quanto avviene in politica, e con conseguente danno del pubblico, che vorrebbe essere informato su quali libri meritano di essere acquistati. Si sa che gli italiani non leggono molto; se comperano un quotidiano o un settimanale, non ne comperano un altro e quindi corrono sempre il rischio di non essere informati che molto parzialmente, a seconda dell’organo di stampa acquistato. Ai mali dell’informazione legati alla questione temporale appartiene anche la difficoltà per il critico di proporre un libro buono, che sia uscito da qualche mese e sia sfuggito a tutti: il mondo dei giornali abitua per sua natura a considerare le cose su tempi brevi, brevissimi, sicché è più facile si trovi posto per l’effimero brillante che per l’oggetto di lunga durata, ma arduo. Ancora un flash sulla condizione del critico giornalista: egli lavora in un contesto socioculturale in cui esiste una organizzazione pubblicitaria attorno ai libri che agisce indipendentemente dal discorso di lui critico: su ordini del Dio Fatturato, ecco belle giovani donne degli uffici stampa incollate coi loro riccioli biondi o neri al telefono da mattina a sera, ora in vista di un premio ora di una presenza televisiva; ecco un tutto attraversato dalla sottile onnipotenza di qualcosa che non ha assolutamente a che fare con la cultura, e a volte è addirittura stupido. Musil direbbe: «Signori e signore, chi al giorno d’oggi abbia l’audacia di parlare della stupidità corre gravi rischi: la si può interpretare infatti come arroganza, o addirittura come tentativo di disturbare lo sviluppo della nostra epoca». Questo perché Musil nel famoso Discorso sulla stupidità osserva come tale qualità assomigli molto al cosiddetto progresso, nel quale rientrano anche le tecniche più raffinate della persuasione e della pubblicità.
Ma è ora di chiudere con qualche frammento di tipologia del critico giornalista il quale, se non vuole darsi al giardinaggio e alla coltivazione delle rose, deve di volta in volta esercitare la propria milizia. Fermiamoci quindi davanti alle edicole: c’è il critico intelligente ma di tendenza narcisista, che recensendo un libro parla molto di sé, delle sue reazioni al libro più che descriverlo; il che lascia perplesso il lettore. Poi c’è il critico che proietta sul libro il proprio ideale di scrittura e lettura, quando addirittura non la propria ideologia, e spesso è enfatico. Altro tipo è offerto dal critico valente, ma incapace di usare una struttura espositiva e un linguaggio che siano chiari: il pubblico incontra un lessico ignoto che lo disturba nella lettura come un calabrone. Naturalmente il danneggiato dal male dell’oscurità non è il malato, ma ancora una volta il pubblico. Vi è anche il critico geniale, simpatico, impaziente e imprevedibile, il quale presuppone l’informazione che dovrebbe dare. Naturalmente passiamo sotto silenzio coloro che parlano dei libri senza averli letti, ma sfogliati e fiutati soltanto, e quindi costruiscono il discorso sul vuoto sottostante. Chiudiamo in bellezza col critico che è serio nella scelta, preciso nell’informazione, acuto ed elegante nella scrittura; come già disse più volte Contini, non esiste buon critico che nella propria operazione non sia scrittore. Egli può celebrare o stroncare o scegliere la via di mezzo, purché il tutto sia motivato. Per nostra fortuna questo tipo non manca nel panorama italiano; la morale della favola sarebbe allora che nel nostro paese in una calviniana “rete di linee che s’intersecano” c’è tutto e il contrario di tutto.