Una tormentosa questione di nervi
di Giuseppe Sertoli
Joseph Conrad
Epistolario
a cura di Alessandro Serpieri, ed. orig. 1966,
pp. 384, € 36,
Giometti & Antonello, Macerata 2021
Senza essere un grande scrittore di lettere, di lettere Conrad ne scrisse proprio tante. L’edizione del suo epistolario, pubblicata fra il 1983 e il 2007 dalla Cambridge University Press, consta di 9 volumi per qualche migliaio di pagine, e non può nemmeno dirsi completa perché non passa anno senza che qualche nuova lettera salti fuori. Solo di raccolte parziali disponeva Alessandro Serpieri quando nel 1966 curò, ultimo volume della benemerita collana “Opere di Joseph Conrad” edita da Bompiani, l’Epistolario che oggi viene riproposto tel quel dalla casa editrice Giometti & Antonello di Macerata (che promette di far seguire a esso un secondo volume “contenente missive totalmente inedite in italiano”). Forse sarebbe stato opportuno approfittare della minuziosa annotazione alle Collected Letters per integrare le pur numerose e precise note di Serpieri chiarendo riferimenti e allusioni su cui egli ha sorvolato. Ciò nondimeno (refusi a parte) la ristampa è sicuramente benvenuta, tanto più che il lavoro fatto da Serpieri fu davvero eccellente sia sotto il profilo della traduzione (se si eccettua un uso troppo disinvolto del tu) e del commento sia, prima ancora, sotto quello della scelta dei testi. In poco più di 300 pagine egli costruì un ritratto a tutto tondo di Conrad seguendolo dall’inizio alla fine della sua carriera di scrittore frammezzo a vicende famigliari, rapporti con editori e agenti letterari, assillanti problemi economici (risolti solo col tardivo successo di Chance, che gli permise di saldare i cospicui debiti accumulati), ricorrenti dubbi su sé stesso e malattie di ogni tipo che verosimilmente, almeno in parte, erano forme di somatizzazione di uno stress che solo per brevi periodi gli dava tregua. Scrivere fu infatti sempre, per Conrad, una tormentosa questione di nervi. Lo confessa lui stesso in una lettera a Wells: “per me il solo modo possibile di scrivere è la conversione di forza nervosa in frasi”. Altro che l’attività routinière di Anthony Trollope, che si alzava ogni mattina all’alba per scrivere la quotidiana razione di parole, prima di andare a timbrare il cartellino in ufficio, “sedendosi allo scrittoio” – disse una volta Conrad che pure lo stimava – “come un calzolaio al suo banchetto”. Convertire forza nervosa in frasi voleva dire procedere a strappi, fra slanci e arresti, picchi di energia e abissi d’inerzia, entusiasmi e depressione. Uno stop and go di cui sono eloquente testimonianza due lettere che vale la pena citare. Il 29 marzo 1898 Conrad scriveva a Edward Garnett, il mentore a cui doveva la pubblicazione dei suoi primi due romanzi, lamentandosi di non riuscire ad andare avanti nella stesura del terzo, The Rescue, che avrebbe finito per abbandonare completandolo solo vent’anni dopo: “Mi metto a tavolino religiosamente ogni mattina, sto seduto otto ore al giorno – ma sto seduto e basta. Nel corso di una giornata lavorativa di 8 ore scrivo 3 frasi, che cancello prima di lasciare disperato il tavolino”.
Ecco invece come il 20 luglio 1900, in una lettera qui non inclusa, annunciò all’amico John Galsworthy la fine di Lord Jim, le cui ultime pagine aveva scritte “in un’unica tirata di ventuno ore”: “Spedii a Londra moglie e figlio e alle nove di mattina mi sedetti a tavolino deciso a finirlo a tutti i costi. Di tanto in tanto mi alzavo e facevo un giro intorno alla casa, uscendo da una porta e rientrando dall’altra. Dieci minuti per mangiare un boccone. Profondo silenzio. I mozziconi di sigaretta si accumulavano formando qualcosa di simile a un tumulo sulla tomba di un eroe. La luna spuntò dietro la rimessa, diede una sbirciatina alla mia finestra e salì nel cielo scomparendo alla vista. Venne l’alba e si fece via via più chiaro. Spensi la lampada e continuai a scrivere, mentre la brezza mattutina soffiava le pagine del manoscritto per tutta la stanza. Sorse il sole. Scrissi l’ultima parola e andai in sala da pranzo. Erano le sei. Mangiai un pezzo di pollo freddo […]. Mi sentivo bene, solo assonnato. Alle sette feci un. bagno e alle 8.30 ero in viaggio per Londra”. Superfluo ogni commento.
Scrivere era per Conrad (ma non lo è per ogni vero scrittore?) una incessante, faticosa e penosa lotta con le parole. Una lotta a proposito della quale egli usò più volte la metafora del lavoro in miniera, lavoro doppiamente massacrante per lui che scriveva in lingua aliena. L’inglese sarà pure stata la sua lingua d’elezione, quella senza la quale – confidò a Hugh Walpole verso la fine della sua carriera – “non avrei scritto un rigo da stampare in tutta la mia vita”. Ma è proprio con riferimento a quella lingua che egli evoca la miniera: “ho cavato il mio inglese da una nera notte, lavorando come un minatore di carbone nel suo budello”. Pezzi di carbone sono per Conrad le parole, duri e scabrosi blocchi di minerale da estrarre a colpi di piccone per lavorarli poi a mani nude, ferendosi e sanguinando. Proprio perciò, inglesi o non inglesi, le parole vanno maneggiate con estrema attenzione. “Le cose” – aveva scritto Conrad in una precedente lettera – “Le cose ‘come sono’ esistono nelle parole, ed è per questo che le parole dovrebbero essere trattate con cura, in modo che il quadro, l’immagine di verità che si annida nei fatti, non abbiano a distorcersi – o a confondersi”. Inutile evocare qui Wallace Stevens, come fa Serpieri, o (si parva licet…) qualche più recente adepto del linguistic turn o del nietzschiano non-esistono-fatti-ma-solo-interpretazioni e dunque solo parole. È ovvio a chiunque che, per uno scrittore, le cose esistono nelle parole, in quanto parole. Come poteva dubitarne Conrad, che solo due anni prima di questa lettera, nella oggi famosissima e ultracitata prefazione al Negro del “Narciso” (1897), aveva assegnato alla scrittura il compito di “far vedere” le cose? Solo grazie al “potere della parola scritta (by the power of the written word)” – aveva detto – le cose sono “viste” e dunque “esistono” nella loro “verità”, as they are. A questa convinzione egli non sarebbe mai venuto meno, nemmeno quando la poetica impressionistica formulata in quella prefazione incominciò ad andargli stretta e a non rispecchiare più la struttura e soprattutto la complessità, anche tecnica, dei romanzi maggiori. Non le sarebbe venuto meno per la semplicissima ragione che, ai suoi occhi di scrittore, le cose non esistono al di fuori delle parole che le fanno esistere.
Una volta detto questo, però, Conrad non va oltre. A differenza del suo très cher maître Henry James, egli non amava “teorizzare”, non si dice su questioni filosofiche o epistemologiche ma nemmeno sul proprio lavoro di scrittore. Il “pronunciamento” del 1897 rimane la sua unica enunciazione teorica, e anche se nelle lettere insiste spesso sul “metodo” che sarebbe alla base di ogni sua pagina, non è mai chiaro che cosa esattamente intenda. Sospetto che non fosse chiaro nemmeno a lui, e che anzi egli si astenesse dal cercare di chiarirlo, a sé e agli altri, da un lato per non disperdere energie nervose che potevano e dovevano essere meglio impiegate, dall’altro (azzardo) per una sensazione di saccente futilità inerente a ogni discussione “teorica”. Dopo tutto, il compito di uno scrittore è scrivere, non speculare e discettare sulla scrittura. Per questo le “Note dell’Autore” dettate negli ultimi anni per un’edizione completa delle sue opere sono tanto deludenti rispetto alle Prefazioni di James: perché (di)vagano fra esperienze personali e incontri casuali, cose viste o ascoltate e ricordi autobiografici (non senza reticenze e “dimenticanze” più o meno volute), senza mai venire al dunque del suo impegno di narratore alle prese coi problemi dell’immaginare storie, costruire trame di racconti e romanzi, mettere in scena e far muovere personaggi, insomma con tutto ciò che con suprema perizia – e consapevolezza della medesima – maneggiava James. Il che non significa, beninteso, che Conrad mancasse di senso critico: lo dimostrano, in queste stesse lettere, certe sue reazioni ai libri che riceveva da amici scrittori con i quali ci teneva a mantenere buoni rapporti. Tanto ci teneva, per la verità, che le lettere con cui li ringraziava abbondano di frasi di circostanza improntate a quella cortesia un po’ cerimoniosa che fu un tratto caratteristico della sua personalità di “gentiluomo polacco” in cui il “catrame britannico” non aveva cancellato le “forme” dell’educazione ricevuta da bambino. Ma all’occorrenza, quando per qualche ragione si sentiva provocato, Conrad sapeva essere un critico acuto, che non faceva sconti.
Ne è esempio una lettera scritta nell’ottobre del 1899 a Hugh Clifford, alto funzionario dell’impero britannico in Malesia, che dopo aver letto i primi racconti e romanzi di Conrad lo aveva accusato, in un articolo pubblicato in un giornale di Singapore, di “completa ignoranza degli usi e costumi malesi”. Accusa da cui Conrad si era difeso, in una lettera al suo editore, dicendo di non essersi mai “voluto imporre come una autorità sulla Malesia”: aveva solo cercato “un mezzo in cui esprimer[s]i” basandosi sulla sua esperienza e documentandosi come poteva. Clifford sarebbe diventato in seguito uno dei più convinti ammiratori e sostenitori di Conrad, stabilendo con lui un rapporto d’amicizia che sarebbe durato tutta la vita. Ma quando, un anno dopo quell’articolo, inviò a Conrad un suo volume di “racconti e impressioni di uomini e cose della penisola malese” (In a Corner of Asia, 1899), Conrad non perse occasione di sfoderare la sua più acuminata, ancorché gentile, lama critica. Dopo complimenti di maniera (“materia ammirevole … metallo genuino … valore assoluto…”), passando alla sostanza letteraria del libro, cioè a quell’”espressione” di cui Clifford non era un “cultore”, Conrad non gli risparmiò una lezione di stile. Lo fece commentando una singola frase, questa: “Quando tutto l’orrore della sua posizione si fece strada con angosciosa consapevolezza nella sua mente spaventata, Pa’ Tûa smarrì per un momento la ragione”. No, così proprio non va! Troppe parole, una ridondanza che “distrugg[e]completamente l’effetto” ingombrando la mente del lettore. Invece: “Quando tutto l’orrore della sua posizione si fece strada nella sua mente, Pa’ Tûa smarrì per un momento la ragione”. Ineccepibile.
Ineccepibile perché – continuava Conrad nella stessa lettera – “tutta la verità (di ciò che diventa “soggetto” di un’opera letteraria) sta nella presentazione», sta cioè nelle parole, e la forma delle parole, la forma di una frase, la forma di un periodo – la loro, appunto, “verità” – è “l’unica moralità dell’arte”. La moralità flaubertiana del mot juste. Quella moralità che dettò a Conrad pagine di assoluta perfezione rimanendo sempre la stella polare del suo viaggio attraverso la scrittura, anche là dove, a tratti – va riconosciuto –, egli sembra perderla di vista ricadendo negli errori che rimproverava a Clifford.
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G. Sertoli è professore emerito di letteratura inglese all’Università di Genova