Dal numero di marzo 1989
di Cesare Cases
Anche se ho conosciuto e frequentato Elsa Morante soprattutto negli anni sessanta e se mi sono occupato di lei in qualche scritto, non so se sono la persona più adatta a ricordarla, poiché questa funzione quasi ufficiale presuppone un rapporto di familiarità che certamente c’era ma di cui entrambi sentivamo che era abnorme. Lei mi considerava colpito da vizio ideologico, scarsamente intendente di poesia, privo di reazioni spontanee; io paventavo le sue impennate, le sue imprevedibili e furibonde invettive contro tutto e contro tutti, il suo apparente lasciarsi cavalcare dalle Erinni. Tuttavia sapeva che l’ammiravo come scrittrice e che questa ammirazione era condivisa (anzi in parte stimolata) dal mio padre nobile, Gyòrgy Lukàcs, che aveva tutti i miei difetti in formato genio. A uno scrittore fanno piacere anche le lodi del diavolo, specie nel caso della Morante, che nell’ambiente romano di ammiratori ne aveva parecchi, ma non poteva mai sapere fino a che punto lo fossero per amor suo o di Moravia, che contrariamente a quanto spesso si dice sosteneva la moglie con tutto il peso della sua fama e del suo potere. Io venivo da fuori, in tutti i sensi, quindi le davo maggiori garanzie di autenticità.
Non si trattava però solo di questo, che può essere l’appiglio di una simpatia, bensì soprattutto del fatto che ognuno intuiva che l’altro era una forma alienata di sé stesso: lei che io ero uno spontaneo represso e un irrazionale inquadrato nel reggimento della logica; io che lei perdeva il controllo solo quando voleva perderlo, che detestava la ragione solo perché porta all’irrazionale e che, insomma, era un’urlatrice pensante, con il vago sospetto che pensasse meglio di me. Capivamo la verità dell’altro, anche se scarsamente compatibile con la nostra, perché avevamo in comune il pathos della verità, che per me aveva ancora un sapore hegeliano, coincideva con l’Idea, mentre per lei era semplicemente la caduta del velo di Maia che ci separa dalla coscienza del nostro e dell’altrui sta-to. Una volta spiegò di aver preso una droga (mi pare il peyote) che su di lei aveva avuto l’effetto terrificante di farle vedere appunto il mondo così com’è. Roma le appariva in tutta la sua sordidezza materiale e morale, un mare di sporcizia e di perversità che includeva amici e conoscenti. Rientrata barcollando in casa con l’intenzione di non uscirne più, sente il campanello, apre con ribrezzo ed ecco arrivare Carlo Levi, il quale in tutto questo marciume è l’unico esse-re che, rivelandosi qual è, mostra un volto bello e radioso, spirante infinita bontà. Era questa la visione della Morante dei primi anni sessanta, che risparmiava almeno qualche amico, che fosse Levi o Pasolini o Sandro Penna. E poi ci voleva l’allucinogeno per sprofondarla nell’orrore. Più tardi fu diverso, ma aveva spesso ancora momenti in cui almeno l’interlocutore rappresentava una verità sopportabile o addirittura gradevole.
L’analisi che segue concerne un passo dell’Isola di Arturo, e questa scelta è dettata da ragioni esterne: gli studenti del corso per l’agrégation di fronte a cui la tenni per la prima volta avevano in programma quest’opera (1), cui personalmente preferisco altre (Menzogna e sortilegio e Aracoeli). Si tratta di un momento di trapasso: l’odio di Arturo per la matrigna, Nunziata, si sta mutando in amore e movente essenziale di questo mutamento inaspettato sarà la gelosia per la nascita del fratello. Nunziata è incinta e Arturo al solito ha passato la giornata sulla spiaggia finché la matrigna lo chiama per la cena: “Arturo! Artuu!” Come ha subito notato Giacomo Debenedetti, questo accorciamento “Artù” può essere interpretato come forma meridionale ma evoca anche il re Artù, l’eroe da leggenda cui Arturo si richiama nell’ordine mitico, come nell’ordine cosmico si richiama alla stella Arturo (cui del resto si accenna nella pagina che segue questa). Poi viene il passo:
«A quell’ora, essa era già intenta ai preparativi della cena, io entravo con un’aria quasi cupa, di svogliataggine, e, in attesa della cena, mi stendevo sulla panca, a riposarmi della mia giornata. Ogni tanto, sbadigliavo, con una certa ostentazione di noia e di stanchezza; e a lei non accordavo molti segni d’attenzione, né c ‘erano molti discorsi, fra noi due. Aspettando che l’acqua bollisse, ella si sedeva su una seggiola bassa, con le mani intrecciate in grembo e la testa leggermente china; e ogni minuto si scostava dalla fronte sudata un ricciolo, sfuggente dalla sua grossa treccia. La sua persona ingrossata, senza più fanciullezza, mi appariva cinta di signoria e di riposo; come certe figure adorate dai popoli d’Oriente a cui lo scultore ha dato una gravezza strana e deforme per significare il loro potere augusto. Perfino i due cerchietti d’oro degli orecchini, ai lati del suo viso, perdevano, ai miei occhi, il loro significato di ornamenti umani, e mi sembravano piuttosto dei voti, appesi a un ‘effige sacra. Vedevo affacciarsi dalle ciabattelle i suoi piccoli piedi, che non avevano scherzato, come i miei, durante l’estate, per la spiaggia e la marina; e il colore candido della sua pelle, in una stagione che tutti gli uomini e i ragazzi miei simili erano sempre così scuri, mi appariva anch’esso un segno di nobiltà antica e padronale. In certi momenti, non ricordavo più che io e lei eravamo quasi coetanei: essa mi pareva nata molti anni prima di me, forse più antica della Casa dei guaglioni; ma per la compassione che provavo vicino a lei, quella sua suprema età mi pareva una cosa gentile».
Di per sé questo avvicinamento è episodico, è solo un pannello di quelle minute descrizioni di assorte atmosfere quotidiane che occupano soprattutto la prima parte del libro. Solo più tardi si potrà cogliere il significato della trasformazione di Nunziata in idolo orientale e dell’allusione agli orecchini, uno dei quali si strapperà nella lotta amorosa tra la donna e Arturo, a cui sarà regalato per indicare come perfino il dolore che egli ha inflitto alla matrigna si possa trasformare in pegno d’amore (così almeno interpreta Arturo stesso). Il carattere di transizione è sottolineato da parole denotanti insicurezza e indeterminatezza: avverbi e aggettivi (“quasi cupa”, “certa ostentazione”, “certe figure”, “forse più antica”); verbi come “sembrare”, “apparire” (2 volte), “parere” (2 volte); espressioni riduttive (“non accordavo molti segni… né c’erano molti discorsi”, “seggiola bassa”, “testa leggermente china”, “ciabattelle”, “piccoli piedi” ecc.).
Nonostante questa vaghezza del clima psichico, che è una costante del libro in perpetua polarità con la precisione dei contorni delle cose e delle persone (si vedano qui la posizione di Nunziata e il suo modo di scostarsi i riccioli), l’evoluzione è chiara. Si passa dall’aria quasi cupa, dallo sbadiglio, dall’ostentazione di stanchezza e di noia, all’osservazione del corpo ingrossato “senza fanciullezza”, che ha assunto una dignità da mater mediterranea o da idolo orientale in cui anche la deformazione ha una funzione sacra. Perfino la bianchezza dei piedi appare ad Arturo come un segno di nobiltà antica e padronale: i padroni, nelle terre calde, sono quelli che non prendono il sole. Questa nobiltà è anche antichità, ma per la compassione che Arturo prova quella sua suprema età gli “pareva una cosa gentile”. Attraverso questo passaggio dal quotidiano, indifferente, al sacro e venerando il passo viene a concludersi sulla parola “gentile”, una nota di tenerezza prodromo della passione che poi divamperà in Arturo. Prescindendo dal suo significato di cerniera, nella nostra pagina si riflette l’atmosfera di tutto il libro e il rapporto, nell’odio e nell’amore, tra i due personaggi principali, rapporto dominato da Arturo non solo perché è il narratore ma perché è quello che almanacca, sogna, mitologizza, trasforma il quotidiano in eroico o, come qui, in sacro, mentre Nunziata emerge attraverso le qualità opposte: in negativo, la mancanza di fantasia se non d’intelligenza — di questo spesso l’accusa Arturo —, l’assenza di mobilità spirituale. La sua forza sta invece nella sua saggezza innata e ereditata, nascosta anche a sé stessa: la saggezza, appunto, degli dèi. Non per nulla il nietzscheano senza saperlo Arturo deduce dall’esistenza degli eroi, e dalla convinzione di essere predestinato a diventarne uno, l’inesistenza di dio, che limiterebbe l’autonomia dell’eroe, mentre Nunziata si circonda delle sue numerose madonne, ognuna con qualche specialità.
Il romanzo si muove tra questi due poli secondo una linea ben precisa, messa in rilievo dall’autrice stessa e poi molto bene da Giacomo Debenedetti. Per arrivare alla maturità Arturo deve passare attraverso i misteri un po’ come Tamino nel Flauto magico, aveva risposto la Morante a un lettore. Quindi un processo d’iniziazione di un eroe. Come molti eroi leggendari, Arturo è orfano di madre e viene allattato con latte di capra. Poi abbiamo molti elementi caratteristici della fiaba (e anche dell’epos) mescolati ad altri di un tipo d’iniziazione più moderno: la morte apparente, la tentazione dell’incesto — proprio al risveglio dalla morte Arturo identifica Nunziata con la madre morta —, la ricerca dell’esogamia in Assunta, infine il tramonto del padre, la rivelazione della sua natura di omosessuale facile predadei suoi ragazzi, del carattere menzognero dei suoi viaggi, del disprezzo di cui è circondato ecc. Infine nella grotta c’è l’incontro con Silvestro, il riconoscimento attraverso l’anello con il cammeo e l’abbandono dell’isola con la benedizione e il talismano (che è anche un pegno d’amore) della matrigna. Debenedetti, che proprio in quegli anni si occupava di miti e di etnologia e collaborava con De Martino, calca forse un po’ troppo la mano nel tentativo di ricostruire un’unità mitologica: come sempre nella Morante c’è tanta (forse troppa) grazia ed è difficile discernere un influsso coerente e univoco. Tuttavia era già stato tradotto in italiano il libro di Propp Le radici storiche dei racconti di fate: almeno l’idea della “casa dei guaglioni”, riservata agli uomini, posta fuori mano e gravata di una specie di maledizione, è assai probabilmente desunta dalla “casa degli uomini” di cui parla Propp. In generale il libro è un tale coacervo di riferimenti espliciti ed impliciti che ognuno vi può trovare ciò che vuole: Freud e Jung (il “fanciullo divino”), Frazer e Propp, l’astrologia e la mitologia, Arturo e Artù, e soprattutto Mozart.
Oltre al riferimento a Tamino, c’è infatti quello due volte ripetuto al Cherubino delle Nozze di Figaro. Ripensando alle parole del padre, che l’aveva chiamato “rubacuori e Don Giovanni”, Arturo gli dà un po’ di ragione: “Forse, davvero io, mentre mi credevo innamorato di questa o quella persona, o di due o anche tre persone insieme, in realtà non ne amavo nessuna. Il fatto è che, in generale, io ero troppo innamorato dell’innamoramento, questa è sempre stata la vera passione mia!”. Come di Cherubino, con cui Arturo ha evidentemente in comune anche l’autocompiacimento, il narcisismo. Un personaggio del genere era l’Edoardo di Menzogna e sortilegio, tuttavia, oltre ai diritti di nascita, per cui era tra tutti il meno velleitario, quello in cui i capricci, grazie alla ricchezza, erano meno fantastici e più realizzabili, Edoardo moriva giovane, di tisi: la sua non era né poteva essere un’iniziazione. Invece quella di Arturo è proprio un’iniziazione, ma a che cosa? Anche qui Debenedetti si era posto le domande giuste: “Ma al di là delle prove dei quattro elementi, Tamino si ricongiunge con Pamina, sale al tempio del sole, sarà re. Quando invece l’isola scompare agli occhi di Arturo, ci pare che scompaia propriamente il tempio del sole. Il silenzio stesso della narratrice, la desolazione che lei si lascia piombare addosso ci avvertono senza equivoci che di lì comincerà lo squallore, la mediocrità. L’iniziazione non sarà servita a nulla, se mai ha avvilito l’eroe. E già era stata una ben strana iniziazione, quasi a rovescio, se si era conclusa nel freddo e nel buio dei magazzini, dove Arturo trascorre la sua ultima notte sull’isola. Per un momento, avevamo ancora sperato, quando ad Arturo riappare il balio Silvestro e si fa riconoscere dall’anello che porta incisa sul cammeo la testa di Minerva. Forse la dea della ragione era comparsa a rimeritare Arturo delle prove che aveva durate. Ma subito ci rendiamo conto che la ragione non sarà se non la contabile dell’aridità feriale, quotidiana che aspetta il ragazzo”.
Forse peggio ancora dell’aridità feriale: la guerra che si sta preparando (è l’unico riferimento cronologico del romanzo) e in cui l’eroico Arturo vorrebbe precipitarsi, senza ascoltare Silvestro che gli spiega che la guerra non è più faccenda da eroi. Non a caso l’ultima parte ha per epigrafe l’aria in cui Figaro si rallegra che Cherubino debba smetterla di fare il “farfallone amoroso” per andare “coi guerrieri, poffarbacco!”. Direi che qui sta la connotazione essenziale del mondo dell’isola di Arturo: lontana dal mondo abitato e dall’apparato burocratico-statale, che appare solo sotto forma di carabinieri che accompagnano i rari arrivi di deportati e che Arturo — sempre dalla parte dei banditi e degli outsider — cordialmente odia e disprezza, essa è un luogo dove è possibile se non altro nutrire ancora il sogno della sopravvivenza di quello che Hegel chiamava Io stato epico del mondo, in cui gli eroi si affrontano ancora con i pugni o all’arma bianca. Il parallelo tra questa infanzia e adolescenza dell’umanità e quelle del singolo è già in Vico e in Herder.
Ma la conservazione artificiale di questo stato del mondo in un’isola privilegiata e omericamente assolata fa sì che l’iniziazione sfoci, come si diceva, nel nulla. Al limbo non segue il paradiso, era il limbo il paradiso, come afferma la poesia liminare (“fuori del limbo non v’è eliso”). Qualcosa di questo nulla si proietta all’indietro sul paradiso nella sproporzione tra quel che realmente succede e la veste mitologica che assume, nonché i patemi che in conseguenza agitano il protagonista, il quale in fondo sa di tale sproporzione, sa che le sue tempeste sono “tempeste in un bicchier d’acqua”, come osserva Cesare Garboli, e quindi in tutto quel che fa c’è l’elemento della finzione, della messa in scena, ereditato da Menzogna e sortilegio. Questo elemento è rafforzato dalla capacità di minuziosa autoanalisi e dalla coscienza culturale del narratore, che per esempio nel brano che abbiamo letto sembra saperla lunga sull’arte orientale e sul tipo della mater mediterranea. Le madonne di Nunziata non erano certo fatte così, erano imitazioni di Guido Reni.
Come faccia Arturo a saperla così lunga senza mai essere andato a scuola, avendo fatto letture disordinate e fantastiche e praticando gente rozza e ignorante e un padre mitomane, non si sa. Nell’Elisa di Menzogna e sortilegio la crescita interiore e la lucidità analitica erano ben più motivate. Invece questo privilegiato dagli dèi che sembra aver letto Les voix du silence di Malraux a un’epoca in cui il libro non era stato ancora scritto e conoscere certi esempi di arte del Novecento ispirata appunto all’arte orientale (stando a Procida!), si fonda evidentemente su quella che i toscani chiamano la “scienza infusa”, infusa forse con il latte di capra. In teoria si potrebbe pensare che questa riflessione si indori di cultura a posteriori: dopo tutto questo non è un diario, sono “memorie di un fanciullo” scritte al tempo passato, non certo dall’ottuagenario del Nievo, comunque però da un uomo maturo. Tuttavia quest’uomo maturo, come intuisce Debenedetti, non deve essere un gran che, sarà un fallito come il “butterato” di Menzogna e sortilegio che aveva anch’egli aspirazioni eroiche e da ragazzo non voleva sentire la parola “rassegnazione”, oppure come sarà il Manuele di Aracoeli. Per lui è importante proprio il punto di vista del passato, non quello del presente di cui non sappiamo nulla. L’isola di Arturo non è certamente un Entwicklungsroman, non c’è nessuna evoluzione, casomai un’iniziazione, anche se negativa, e quel che conta è il passato come tale. Ora proprio in questa prospettiva del passato c’è una flagrante contraddizione tra gli eroici furori del narratore e la sua capacità di riflettere, di analizzare, di fare accostamenti culturali. Quel che si prepara qui è il narratore onnisciente della Storia, che può fare e sapere tutto indipendentemente da tempi e luoghi.
Questa contraddizione non c’è nel personaggio di Nunziata, che ha veramente la “scienza infusa”, la scienza data da un’antica tradizione popolare e femminile nel quadro di un cattolicesimo paganizzante. La Morante aveva già creato figure di queste tipo in Rosaria e Alessandra di Menzogna e sortilegio, ma bisogna riconoscere che Nunziata è ben più compiuta e riuscita, non è né una prostituta come la prima né una contadina un po’ stolida come la seconda, bensì una madre provvista di tutta la saggezza di una popolana meridionale che attinge però a una civiltà urbana. Ciò che caratterizza tale saggezza è il senso del relativo, la presenza di princìpi che non si indagano e che danno saldezza alla vita, ma sono sempre disposti a capitolare silenziosamente di fronte al concreto. Leo Spitzer, che prima di morire potè leggere entrambi i romanzi della Morante allora pubblicati, dava la palma all’Isola di Arturo per la raffigurazione del personaggio di Nunziata, che considerava un unicum nella letteratura mondiale. A chi come me gli opponeva la ricchezza del mondo descritto in Menzogna e sortilegio rispondeva: “Va bene, ma per questo c’è già Proust! Invece un personaggio come Nunziata che incarni la saggezza inconsapevole di sé non esiste da nessuna parte”. Mi piego alla sua autorità, che del resto volendo declassare Menzogna e sortilegio non trovava di meglio che paragonarlo con Proust.
Questa è la rielaborazione di una conferenza tenuta nel marzo 1985 alla “kagne” (corso preparatorio all’esame di “agrégfltion”) di Aix-en-Provence e ripetuta l’anno seguente al Circolo filologico padovano come omaggio alla scrittrice nel frattempo deceduta.