recensione di Paolo Gera
Baret Magarian
Le macchinazioni
traduzione dall’inglese di Simone Pagliai,
€ 18, pp.571
Edizioni Ensemble, Roma 2020
Londra è la citta fumosa dei doppelgänger e dei patti con il Maligno. Marlowe vi scrisse il primo Faust, tra la fine del 1500 e l’inizio del 1600; Robert Louis Stevenson vi ambientò il gabinetto sperimentale del Dr Jekill e le scorribande pulsionali di Mr Hyde; Oscar Wilde appese alle pareti di una nobile dimora il sulfureo ritratto su cui si imprimevano i vizi sfrenati di Dorian Gray; George Bernard Shaw, quasi prevedendo i meccanismi psicologici della società dello spettacolo, rispolverò il mito greco di Pigmalione, materia identitaria vile da plasmare e da far assurgere a richiamo di gran moda. Baret Magarian prende ispirazione e si confronta con tutte queste suggestioni, queste costruzioni mitopoietiche del passato, ma le fa rivivere nel teatro illusionistico della Londra contemporanea, o meglio nell’ambiente cibernetico sensoriale che la capitale inglese è ormai diventata. Le macchinazioni è una storia di libero arbitrio 2.0, di manipolazione della personalità, di dissociazioni fisiche e psichiche. Jonathan Coe, nella quarta di copertina, si riferisce al carattere spirituale dell’opera: “Magarian usa la fiction per porre alcune delle domande più grandi e complesse sulla vita. Come si vive, con il passare del tempo, la caducità delle cose? I nostri desideri possono mai essere soddisfatti? Come si può vivere una vita completa e significativa? Come tutti i migliori scrittori e pensatori, Magarian sa che non si può dipingere un ritratto accurato del mondo senza riconoscere la sua assurdità essenziale e disperata.”
All’inizio del romanzo la vacuità esistenziale dell’individuo preso nella rete di identità fittizie è espressa nel rapporto fra due amici in apparenza molto lontani fra loro per età, carattere, aspirazioni. Daniel Bloch è uno scrittore maturo all’apice del successo, stanco di scrivere romanzi troppo popolari; Oscar Babel, il giovane, è una forma che si definisce a fatica, un disegnatore senza vocazione, un nulla che vive come un’ombra tra le ombre proiettate su uno schermo, in un cinema d’essai di cui è il proiezionista. Il meccanismo narrativo sembra innescarsi per magia all’incrocio dell’esistenza di questi due uomini. Daniel decide di risolvere la sua crisi creativa scrivendo e poi incidendo su vecchi nastri una storia che riguarda il suo amico e in maniera cabalistica la vita di Oscar cambia, totalmente, secondo i dettami dello scrittore, che forse è un potente mago o forse una persona psichicamente sempre più labile. Lo sviluppo del romanzo, dotato di una coralità apprezzabile e di un approfondimento grottesco e nello stesso tempo empatico di una miriade di personaggi, prevede che compaia Ryan Rees, una specie di Mefistofele dell’era digitale, un uomo letteralmente senza volto, senza lineamenti, perché posseduto dalla vocazione demoniaca di perfezionare quelli degli altri, un chirurgo plastico dell’immagine pubblica. Rees è uno spietato produttore di casi di successo, un influencer subliminale, che incarna perfettamente lo spirito attuale della macchina mediatica e della sua capacità di attirare l’attenzione delle masse là dove viene puntato il riflettore, sulla tigre di carta del momento, sull’idolo fasullo da trasformare in agnello sacrificale quando l’indice di popolarità scenderà inesorabilmente. Rees lancia Oscar come un messia di cartapesta o, meglio, di pixel ben assemblati e luccicanti. Al culmine del successo, in una specie di discorso della montagna allestito a Kensington Park, che la folla accorsa interpreta come un invito esplicito e ben accetto a iniziare un’orgia sfrenata, il guru Oscar Babel torna a guardare dentro se stesso e decide di rinunciare a ricchezza e fama.
L’aspirazione cristologica sembra abbandonare il lato spettacolare della mistificazione, per offrirsi come chiave interpretativa profonda de “Le macchinazioni”. Come Daniel Bloch si ritira in sé attraverso un processo reale di macerazione alla ricerca dell’Essenziale, in una riduzione progressiva che diventa anche fisica, così Oscar si espande nel mondo in una dimensione pericolosamente popolare che potrebbe inchiodarlo a uno status quo messianico non risolvibile se non con il sacrificio supremo. Daniel/Giovanni Battista deve diminuire affinché Oscar/Gesù Cristo possa aumentare. Illum oportet crescere, me autem minui. Il finale è mirabile perché non vuole risolvere piattamente con dettagli cronachistici tutti i legami che si sono creati, ma li lascia irrisolti per una scelta consapevole di deriva narrativa, in cui affiorano i relitti di un flusso di coscienza, qualche traccia fosforica di memoria, il nulla. Come nel romanzo di Bulgakov Margherita volava nel sulla sua scopa da strega su Mosca, si alza con una mongolfiera sulle caotiche vanità di Londra che dall’alto appare insignificante. Raggiunto il cielo più puro deliberatamente si sgancia e precipita a capofitto. Oscar cade nel centro di Daniel e Daniel lo riassorbe in sé. Con il salto di una riga l’uno diventa il pensiero dell’altro, la sua morte, la sua liberazione definitiva.