di Dario Gattiglia, Federico Ghillino eGiacomo Simoni
«No, non è scrittore ludico, Tozzi. Tempi duri dunque l’attendono. La leggerezza – si sa – è arte signorile. Che la cultura postmodernista – una cultura di uomini che si credono i signori del mondo e come tali comunque si comportano – unicamente la leggerezza ritrovi nell’arte, non è una buona ragione per misconoscere la pesantezza».
Così Romano Luperini, quasi eroico nel manuale La scrittura e l’interpretazione con cui da decenni offre Tozzi alle aule. Ma ci aveva provato anche Debenedetti, rilanciando Tozzi, con tutto il suo peso, nell’anno di morte precoce del boom, quel famigerato 1963. Gianfranco Contini, nella colossale Letteratura dell’Italia unita del 1968, addirittura ignorò di colpo l’ordine cronologico, per aprire col senese una linea a parte di narratori toscani che sfociava in contemporanei stretti e popolarissimi come Tobino e Cassola. Per quest’ultimo, Tozzi era «il solo scrittore», in cui «non si possono rintracciare tema e svolgimento», nonché «una minaccia per l’insegnamento scolastico». Il fallimento della proposta non si spiega certo con quel peccato originale di «scriver male» che autori già e ancora liceali, come Svevo e Pirandello, si trascinano; forse per compenso amoroso, la stima di cui gode Tozzi assume piuttosto tinte paradossali: sempre per Luperini, «va considerato fra i quattro o i cinque maggiori romanzieri italiani del secolo. Ma è nella novellistica che raggiunge i suoi maggiori risultati». Pure, si deve qualche gratitudine oggettiva a scrittori così: chi sa superare, quasi punto per punto, le secche e gli inciampi eterni delle lettere nostrane; Tozzi lo fa con una paratassi sempre su misura, figure femminili non prese e liricizzate di petto e, soprattutto, con il suo paesaggismo, mai risolto in macchia di colore, prova di bravura o semplice tessuto connettivo fra dialogo e dialogo. Proprio per l’occhio alla «composizione» – Tozzi tentò anche le Belle Arti – Contini gli trovò fratellanze spirituali addirittura nel cinema tedesco. E a mezzo secolo di distanza, una terribile istantanea degli Egoisti è passata al Borghese piccolo piccolo, romanzo e pellicola, contribuendo a scrivere l’epitaffio della commedia all’italiana.
Come ricambiare il favore, e proporre Tozzi? La biografia da slavo di Toscana – la violenta campagna paterna e la città che non comprende, la malattia agli occhi e la morte nel mezzo di un’epidemia – unita al nerbo paratattico che precede la grande sbornia statunitense lo potrebbe mettere a cavallo di due manie esterofile che, da noi, non hanno saputo morire. In un secolo, nel bene come nel male, fatto dai figli e dai nipotini di Dostoevskij, Tozzi aprì la strada: il suo stile a volte tutto esposizione – quasi da sceneggiatura del sottosuolo – avrebbe potuto rinfrescare la gonfia prosa italiana fra le due guerre ancor prima di Moravia (così gli Indifferenti chiudono il decennio degli Egoisti tozziani).
Può rinfrescare ancora. Associato com’è a un’area molto scolastica di autori del subconscio e del non detto, Tozzi sa invece graduarsi: non dice mai troppo, certo, ma dice nudo, a volte dice tutto. È autore di incipit così assoluti da abbagliare («Nel millenovecento, Remigio Selmi aveva vent’anni», «Appena desto, Dario Gavinai sentì che ricominciava istantaneamente a pensare», «A diciannove anni mi venne l’idea che sarei morto tra qualche mese»), ma sa anche dilungarsi, ritardare magistralmente l’attacco: un racconto come Il crocefisso si apre sbozzando un apologo fra gnosi e visione («Ho pensato esista un mondo che Dio non ha finito di creare») davvero impossibile a definirsi; gli unici «paesaggi di una bellezza profonda» risiedono in queste pagine. Si può solo consigliarne la lettura, per attestarne l’unicità. È Il crocefisso che farà da basso continuo per tutta la raccolta Giovani, sovrapponendo una crudeltà strutturale a quella dei singoli racconti: l’uomo originario, il giovane della creazione tozziana, è un Adamo ciecato; anche le Pigionali del primo racconto, vecchie e orribili quanto le zitelle landolfiane, stanno a provare come la gioventù tozziana completi la senilità di Svevo: sono età dell’anima, leggerle assieme è assistere all’intera vita di quel confuso signore che fu l’uomo del Novecento. Fra i molti «Kafka italiani» – forse il più durevole col Buzzati – Tozzi fa qualcosa di più e di meno che svuotare l’allegoria: preferisce farsi compilatore diretto di ritratti creaturali, incapace com’è, forse anche con dolore, di delegare alla trascendenza la responsabilità della rappresentazione. La vera vocazione di Federigo sarà sempre la carne, saggiare la distanza dal divino sui corpi. Una definizione moraviana – proprio l’essere prima di tutto un «fisiologico» – volle ricondurlo a un tentativo pre-culturale, ricalcando quello che Contini fece contro un altro primitivo, Dino Campana. Virandoli all’opposto, perché non proporli in coppia, se entrambi hanno saputo assumersi tutto il peso del pascoliano e del dannunziano per restituirlo al Novecento? Intuendo il degradarsi rapidissimo di simili modelli – a modo loro così perfetti – ci hanno indicato una via per non rifarsi decadenti: Tozzi da solo ha rappresentato forse il meglio del pascolismo, quella propensione e condanna a captare ogni minimo atto del mondo che è una risorsa per ogni stagione.
«Realista sconvolto», sembra poco fertile chiedersi oggi se Tozzi fu anche verista o no, verghiano o meno. Dal nervo alla carne, si è fatto costruttore per sottrazione: se il ritorno all’ordine è fase inevitabile per molti artisti, quello di Tre croci e Il podere è soprattutto approdo tecnico, a un minimalismo superiore. Così Borgese dedicò il suo Tempo di edificare alla «cara memoria» di Tozzi, senza spaventarsi di una violenza che sembra scoppiare a ogni pagina; se dietro a Bestie dovevano venire Cose e Persone, il frammentismo di questo violento, evidentemente, aveva un fondo anche troppo progettuale. E una piccola grande scoperta di Tozzi è quell’«opacità del male» senza intelligenza notata da Giacinto Spagnoletti, che nello scrittore corrisponde a mancanza di effettismo, quindi a buon gusto: Tozzi è fra i pochi autori che, per scarsità di astuzia, di cultura, non poté far altro che scrivere bene.
L’evidenza dei suoi risultati non lascia scorie, non si rivolta nel basso: in lui tutto sembra escrescenza di un corpo unico, da cui ci si solleva appena. Con gli occhi chiusi, titolo che riassume un secolo, si conclude con un vedere inevitabile, una consapevolezza. È un grande romanzo di formazione in negativo, che del romanzo non vuole nemmeno la struttura; forse perché la materia attingeva alla vita dell’autore, che con la narrazione lineare, come tutte le vite, nulla aveva a che fare. «Se facessi il professore, strozzerei qualche alunno»: chi onestamente lo ammette si candida forse a compito delle vacanze ideale; e se «ludico» non è, il marionettismo isterico di Tre croci porta lo stesso a un ridere nero, nerissimo. Insistere sulla fisionomia – anche fisica – di autore «imbestiato», in apparenza più che maschio, può allora essere un buon modo per contrabbandarlo nelle classi.
Ma Tozzi volle da subito incarnarsi nella sofferente Adele, ed esortare la critica a nuovi sforzi verso la Deledda. Novale, lungo epistolario a una voce ricostruito dalla donna amata è, sì, la testimonianza impressionante di un amore totalmente disadattato, ma anche la cronaca di un rapporto nato per «studiare il carattere di una giovane donna», condotto inizialmente per lettere a tema, col rovello continuo di scriversi troppo male o troppo bene. Emma, infermiera, figlia di un professore universitario, nella premessa a Novale non esita a ritrarre un marito che si carica di «tutte le deviazioni dello spirito» e del secolo, del «reazionarismo bolscevico» quanto di quello «cattolico», tutto soffrendo. Terrorizzato, come Saba, da una paternità che gli rubasse l’amore della compagna, Federigo ebbe torto: cavalleresco filologo del padre, Glauco continuò l’eredità di entrambi. L’incubo di un male famigliare cieco e già trasmesso – l’immagine che di Tozzi si è imposta, che molti ancora vivono sulla pelle – si disperse. Emma, che al marito aveva dato il consiglio acutissimo di «invecchiare», conclude la sua premessa con parole secche e speranzose: «Non m’illudo che la storia passi senza incontrare sogghigni: roba d’altri tempi, roba superata! Ma le generazioni non nascono adulte. Ci sono dei giovani d’oggi; ci saranno domani».