Morbose curiosità genealogiche
di Stefania Lucamante
Alessandro Piperno
Di chi è la colpa
pp. 444, € 20,
Mondadori, Milano 2021
Come afferma l’io narrante di questo romanzo, “coltivare morbose curiosità genealogiche è un’esigenza naturale in qualsiasi essere umano”. I personaggi di Alessandro Piperno, a partire da Daniel Sonnino, posseggono una spiccata predilezione per questo tipo di curiosità. Le saghe dei Sonnino, dei Pontecorvo, degli Zevi, e ora dei Sacerdoti continuano a scavare nell’incubo del nucleo familiare, nella finzione e realtà che prospettivamente determinano il destino identitario di tutti noi. Che si viva all’interno di una famiglia o che se ne sia sprovvisti causa genocidio (ricordiamo la Karen di Con le peggiori intenzioni, Mondadori, 2005), il personaggio di Piperno non può esimersi dal compiere questo carotaggio genetico, questo scavo nelle viscere di noi stessi e di chi ci ha messi a questo mondo. L’analisi delle tribù della borghesia romana – ebrei e goi – rimane sempre al cuore della narrativa di Piperno. Come afferma l’orfano al centro del suo ultimo romanzo: “La mia musa era la famiglia. Una musa nera e riottosa con cui non sarei mai venuto a patti. La differenza fra la vita che vivevo e quella che avrei potuto scrivere era tutta qui: la finzione mi offriva un’insperata possibilità, se non di dire a tutti i costi la verità, almeno di smettere di non dirla”.
Del resto, come può un bambino vivere senza sapere di avere una famiglia a parte i propri genitori? Nel nuovo e splendido romanzo dell’autore romano, ecco due genitori che hanno cercato di formare una costellazione: il padre dolce e affettuoso ma inconcludente, la madre severa e razionale, sempre misurata, sono gli unici consanguinei di questo bimbo. La diarchia genitoriale, assimilata nel ricordo del figlio a “un regime sudamericano”, vive comportamenti schizofrenici per cui durante il giorno padre e madre sono corretti, persino cordiali con il bimbo (soprattutto il padre, “orso bianco in T-shirt e boxer”) mentre svelano una sinistra identità notturna fatta di litigi e frasi scurrili facendo affidamento sul suo sonno infantile. L’insolvenza economica è la fonte di questa ciclotimia. Il padre, personaggio in parte mutuato dal dramma di Arthur Miller, è un commesso viaggiatore (rappresentante di commercio) di lavatrici, mentre la madre svolge con molta perizia il lavoro di insegnante in un liceo bene della capitale. In qualche momento non meglio precisato della loro esistenza, i due si sono innamorati e hanno deciso di sposarsi contro il volere della famiglia di lei. Cose queste che il figlio scoprirà solo molto più in là. Occupato in sit-in contro Israele (ma solo per amore di Sofia Caetani) grazie a un fortuito incontro della madre con una donna assai dimessa, l’adolescente scoprirà di avere una famiglia, oltre ai due genitori. Scoprirà anche il segreto della morte dei suoi nonni materni in un incendio che lascia la madre tredicenne affidata alla zia Nora. Myriam, la vecchia haver della famiglia della zia Nora, è la “stracciona” che madre e figlio incontrano un giorno per strada e che funziona da catalizzatore per lo sviluppo dell’intrigo romanzesco.
Un invito a un Seder per Pesah da parte del cugino Roberto, spinge la dignitosa Gabriella a far conoscere la sua nuova famiglia alla tribù Sacerdoti. Ecco che si apre lo scenario di una Roma che il bambino non aveva mai conosciuto, fatto di appartamenti con ascensori che portano direttamente in casa, situati non nel dormitorio a est della Capitale ma oltre i Fori, verosimilmente sul colle Aventino dove non c’è spazio per negozi ma soltanto per abitazioni residenziali immerse nel verde. Alle soglie dell’adolescenza, l’io narrante scopre che sua madre, Gabriella Sacerdoti, appartiene a una delle tribù più conosciute degli ebrei capitolini. Scopre che il nonno Guido era geniale e aveva lasciato ai fratelli Gianni e Nora la sua parte di eredità. Scopre che la madre, per sposare quell’impenitente fallito del padre “afflitto da costose forme di megalomanie borghesi” nonostante professasse il comunismo, aveva dovuto abbandonare la propria famiglia perché agli ebrei un “chiuso” non piace. Improvvisamente ecco che arriva un viaggio a New York con lo zio Gianni docente di diritto e con i suoi figli. A New York il ragazzo scopre (ancora) tante “prime volte”, fra cui anche il primo incontro sessuale con la scafata cugina Francesca, ammalata delle parole di George Eliot.
Non a caso Daniel Deronda (1876), uno dei rari romanzi dell’Ottocento inglese con un protagonista ebreo, diventa la possibile chiave di lettura di tutta una vita. Invariabilmente, al suo rientro il ragazzo non trova più il padre, quello per cui si troverà “a testimoniare, fuori tempo massimo” il suo eroismo. Un incontro non del tutto fortuito li fa ritrovare e il padre si scatena in uno sfogo razzista in cui declina tutti gli stereotipi a noi noti sugli ebrei con l’aggiunta (interessante!) del topos letterario dell’ebrea seduttrice e ninfomane incarnata nella severa docente di matematica: la madre del ragazzo da donna morigerata e dignitosa assume le sembianze della Salomè più disinibita e vorace. In questo romanzo di particolare bellezza, Piperno opera un intreccio intertestuale che combina tematiche esaminate nei suoi precedenti romanzi (la famiglia come tribù, il narcisismo, lo snobismo di marca proustiana, l’antisemitismo, il Witz in versione romano-ebraica, l’età adolescenziale come soglia di scoperte e delusioni che annunciano l’età adulta) con il Daniel Deronda di George Eliot mediante il personaggio di Gwendolyn alias Gabriella. La scelta di queste due donne, quella di sposare un uomo inviso al loro ambiente, denuncia lo scarto fra quello che rappresenta la volontà e il concetto di ostinazione. L’ostinato è colui che si distingue dall’orizzonte del conosciuto. Se l’ostinato è un personaggio femminile, la sua ostinazione può significare il desiderio di non essere soltanto una parte dell’insieme, ma di fare la differenza tramite la sua scelta. Gwendolyn/Gabriella saranno la causa della loro stessa infelicità e della loro vergogna, ma i due romanzi sembrano offrire una giustificazione sociale per la scelta delle due personagge.
Soffocate dall’iniqua distribuzione del sociale, le due donne volevano solo fare bene, to be good, come afferma l’eroina di Eliot alla fine della storia. Al contempo, l’io narrante di Di chi è la colpa ci mostra da una prospettiva mutata (quindi esterna) la Roma del romanzo d’esordio (e anche di Persecuzione, Mondadori, 2010) di Piperno. La prospettiva, adesso, è prerogativa di colui che vive le conseguenze dell’ostinazione di un individuo (Gabriella) nel rompere gli schemi societari. Il protagonista di Di chi è la colpa è stato infatti catapultato nel mondo del Daniel Sonnino di Con le peggiori intenzioni dopo aver vissuto le conseguenze della willfulness, dell’ostinazione della madre contro la volontà della sua famiglia, della sua gens Sacerdoti. Stesse abitudini di vacanze sulla costiera amalfitana, macchine lussuose, vacanze newyorkesi, appartamenti lussuosi. Solo che lui le guarda da un orizzonte di Roma est, un sogno fugace. Ma come in Con le peggiori intenzioni, ogni volta che l’io narrante si pone una domanda, di solito etica e legata al rapporto coi genitori (sono un mischung perché mio padre ha sposato una goi) viene difficile non rivolgerla a noi stessi. Come l’aggressività che si rivolge sempre verso chi “sappiamo più esposto alle nostre rabbie, e più vulnerabile”.
Passioni non sempre positive lo muovono verso una ricerca delle proprie origini che il ragazzo non aveva neppure scelto di compiere. Leggere un romanzo di Alessandro Piperno rappresenta un piacere ma impone allo stesso tempo anche un penoso scavo interiore. Morale, monito, rivisitazione letteraria, paesaggio narrativo fra i più attenti alla parodia e all’ironia, tutto ci porta a pensare a Di chi è la colpa come a uno fra i romanzi più riusciti di quest’anno.
stefania.lucamante@unica.it
S. Lucamante insegna letteratura italiana contemporanea all’Università di Cagliari