La memoria stessa è una forma della lingua
di Angelo Ferracuti
Adrian Bravi
L’IDIOMA DI CASILDA MOREIRA
pp. 178, € 15,
Exorma, Roma 2019
La narrativa di Adrian Bravi, autore di origine argentine – è nato a Buenos Aires ma vive nelle Marche a Recanati, terra dei suoi antenati, dove fa il bibliotecario – ha una genesi particolare e diversi intrecci e innesti che la rendono particolarissima. Intanto il modo di raccontare affabulatorio, che recupera nel dettato l’oralità, e lo fa sempre in modo molto naturale, senza le forzature tipiche della fiction, cioè senza strizzare l’occhio al cinema, e senza assumere le forme di una sceneggiatura pronta a diventare film, tipiche di molti romanzi che si scrivono oggi in Italia. Già solo questa postura necessariamente letteraria lo renderebbe diverso. Ma un’altra sua particolarità è che dopo un esordio in lingua spagnola, Rio Sauce, ormai vent’anni fa, Bravi ha deciso di scrivere in italiano, quasi traducendosi. In uno dei suoi ultimi libri, L’idioma di Casilda Moreira, sicuramente uno dei suoi più riusciti, questi due mondi linguistici e antropologici lontanissimi, la collina marchigiana e la pampa argentina, trovano un collegamento ideale attraverso una riflessione estetica e una storia di viaggio e di formazione. L’idea più significativa è portare nello stile semplice di certa narrativa italiana – penso alla scrittura di Svevo, Parise, Fenoglio – il realismo magico dall’immaginario combustivo della grande tradizione latinoamericana; infatti c’è sempre più di un elemento fantastico nei romanzi di questo scrittore tanto schivo quanto profondo, che a ogni libro illumina con le sue parole una porzione di senso e di mondo. Questo elemento, già presente nei suoi primi libri, è anche nell’ultimo Il lievitatore (Quodlibet, 2020) dove il surreale e il realismo più quotidiano creano uno strano ibrido tragicomico. Anteo Aldobrandi (nome dal conio “volponiano”, cioè quello di un altro autore insieme realista e visionario) che vive l’incubo di una separazione paranoica, ha poteri sovrannaturali e lievita, riesce a sollevarsi da terra.
Invece nel romanzo di cui parliamo, L’idioma di Casilda Moreira, c’è uno strano personaggio ispiratore, un mandatario della storia, il professor di etnolinguistica Giuseppe Montefiori, ossessivo come molti personaggi di Bravi – come Arduino Gherarducci, protagonista di Il riporto (Nottetempo, 2011) – che sulla spiaggia di Porto Recanati, mentre sta nuotando insieme al suo allievo Annibale Passamonti, è colto da malore, sta per soffocare e infine sputa dalla bocca una medusa. Questo evento, che chiude un prima e un dopo nella narrazione, riesce a straniarla, a immettere elementi di inquietudine simbolica e di surrealtà tipici di certa letteratura sudamericana, in particolare di quella argentina. Sarà proprio il professore a trasferire sull’allievo una conoscenza decisiva: in una zona tra la Patagonia e la pampa argentina vivono due vecchi indigeni, gli ultimi parlanti di una lingua in via d’estinzione, günün a këna, una lingua ibridata dai colonizzatori. Questo romanzo è quindi anche una riflessione sulla lingua, la lingua madre, la lingua materna di cui scrive Bravi in un altro prezioso saggio, La gelosia delle lingue (Eum, 2017), riconnettendo la sua esperienza a quella dei grandi autori del passato, Auden, Beckett, Kristòf; poiché “la memoria stessa è una forma della lingua”, scrive, “mi capita a volte di rattristarmi in una lingua per poi rallegrarmi nell’altra”, e fa tesoro dell’ammonimento dell’amico Alberto Coppari che in una lettera gli scrive “una lingua, insomma, diventa nostra quando la si perde”.
Ma L’idioma di Casilda Moreira diventa anche un viaggio e un reportage (tanto per rimescolare ulteriormente i generi) scritto e vissuto dal giovane marchigiano Annibale, un itinerario vissuto in modo opposto rispetto alla vicenda biografica dell’autore, in cui la fine dell’innocenza, coincide con l’inizio della consapevolezza, la scoperta di un popolo altro, martoriato dalla violenza dei conquistatori (da qui anche il valore storico e antropologico del libro), al quale, appunto, è stata cancellata anche la lingua, il tratto più profondo della nostra identità culturale, la lingua parlata dagli ultimi due viventi di un popolo quasi completamente estinto, come purtroppo capita da oltre mezzo secolo in Amazzonia e in altre parti del mondo.
Arrivato in treno da Buenos Aires, Annibale raggiungerà in autobus Kaulalkan come in un romanzo d’avventura, con nelle tasche il suo registratore, che gli serve per la sua ricerca, per registrare voci: soggiornerà nella locanda di Eusebio Redondo, conoscerà sua figlia Alma, e anche Bartolo e Casilda; le loro storie amorose si incroceranno, tra ieri e oggi, perché questo romanzo di conoscenza si nutre anche di sentimenti, e Annibale capirà che una lingua, nella realtà come nella letteratura, come anche nell’amore, va tenuta in vita e cambia con noi, è dentro di noi, la lingua “in cui ha scelto di vivere, di respirare e di farne esperienza”, come ci ricorda questo scrittore “spatriato”, esule, come si definiva il poeta Luigi Di Ruscio.
angelo.ferracuti@interfree.it
A. Ferracuti è scrittore