di Italo Calvino
dal numero di novembre 1992
Per gentile concessione degli eredi di Italo Calvino, pubblichiamo l’intervento dello scrittore pronunciato a Ravello in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria a Gore Vidal, e pubblicato da “la Repubblica” del 28 settembre 1983.
Festeggiando Gore Vidal qui a Ravello, mi trovo in una strana situazione di sdoppiamento: penso a Gore qui nella sua casa sospesa su un paesaggio scosceso e abbagliante, o nella piazza in cui l’ho incontrato ieri sera, seduto al caffè, e nello stesso tempo mi sento trasportato su altri scenari, una metropoli su un lago con scritte al neon multicolori sui grattacieli. Infatti, ho finito ora di leggere con continuo divertimento e stimolo dell’immaginazione il nuovo romanzo di Gore Vidal, Duluth, uscito da pochi mesi negli Stati Uniti. E un romanzo in cui la vita contemporanea appare completamente occupata dalla finzione, e il mondo non fa che vivere intrecci di serials televisivi con personaggi che si scambiano i ruoli, che muoiono in una storia e ricompaiono in un’altra, oppure intrecci di romanzi fatti in serie e pubblicati a puntate su riviste popolari o in collane ad altissima tiratura. Non si sa fin dove arrivi la vera vita, quella che Gore chiama life or nonfiction e fin dove l’intricata giungla delle storie immaginarie, con episodi che s’alternano e s’incrociano, variamente combinati dai word-processors elettronici, nella cui memoria sono state immagazzinate tutte le trame romanzesche della letteratura mondiale.
Insomma, suggestionato dalla lettura di questo libro in cui quello che avviene non risponde al principio dell'”unicità assoluta”, io mi domando se siamo davvero a Ravello, o in una Ravello ricostruita negli studios di Hollywood, con un attore che rappresenta Gore Vidal, o nel documentario su Vidal a Ravello che dovevamo vedere stasera e che è misteriosamente scomparso, oppure se siamo qui sulla costa amalfitana in un giorno di festa del paese, ma nel 1840, quando alla fine d’un altro romanzo (Burr) il narratore viene a sapere che il più discusso tra i fondatori dell’Indipendenza degli Stati Uniti, il colonnello Burr, era suo padre naturale. Oppure, siccome nel romanzo compare anche un’astronave con un equipaggio di millepiedi che possono assumere qualsiasi aspetto, anche di personaggi della vita politica statunitense, potremmo essere su quell’astronave, che da Duluth si è spostata su Ravello, e gli extraterresti potrebbero aver preso l’aspetto d’uno scrittore americano festeggiato dalla cittadinanza.
Distacco simbolico
La chiave di tutti i misteri forse ce la può dare il finale di Duluth, quando s’apprende che il mondo esiste solo nella mente d’una instancabile romanziera, che può cancellare case, paesaggi, colline, esistenze, finché l’invasione dei millepiedi dell’astronave non provocherà un moltiplicarsi di Ravello nel tempo e nello spazio, con tutte le autorità e gli invitati e il palco per lo spettacolo in piazza, e un Gore Vidal in ognuna, tanto più multiforme e dotato d’ubiquità quanto più “assolutamente unico” e fedele a se stesso.
Sull’ubiquità di Gore Vidal credo che potremmo raccogliere delle prove proprio qui a Ravello, perché quando leggiamo o ascoltiamo Gore sembra che lui non si stacchi dagli Stati Uniti neanche un secondo; la sua partecipazione appassionata e polemica alla vita americana è ininterrotta; e allora quello che voi vedete qui a Ravello vivere una tranquilla vita parallela, chi è: lui o un suo doppio? O che ci sia un satellite artificiale che gira nel cielo della costa amalfitana e lo tiene al corrente di tutto ciò che succede negli Stati Uniti?
Certo, in un mondo senza più distanze, in cui tutto è compresente, Gore ha inaugurato un nuovo modo di stare in Italia. Per molte generazioni di scrittori americani il nostro paese è stato uno sfondo pittoresco, esotico, misterioso, comunque un mondo contrapposto a quello dell’America. Il loro soggiornare in Europa e soprattutto nell’Italia allora così arcaica, lontana non solo nello spazio ma nel tempo, aveva il significato di un distacco simbolico, quasi d’un al di là: non per niente essi si chiamavano “esiliati”, “expatriates”. Gore, lui non si sente esiliato in nessun posto, vive con la stessa disinvoltura sul Mediterraneo che sull’Atlantico o sul Pacifico, anzi, riesce a tenere un piede su ogni riva, con una specie di passo di danza, credo, dato che i suoi piedi sono due e le sue rive tre. Sarà per questo che non ha mai sentito il bisogno di scrivere il suo romanzo italiano, il suo Marble Faun, la sua Daisy Miller, il suo Across the Riverand in the Trees? Mi piacerebbe molto che — adesso che è cittadino onorario d’una nostra città — si sentisse autorizzato a farlo, e sono sicuro che sarebbe, al contrario di quegli illustri precedenti, un romanzo spassoso dal principio alla fine; ma devo ammettere anche che finora l’abbiamo scampata bella! Se penso alla feroce allegria con cui Vidal stritola la realtà americana in una trasfigurazione grottesca e truculenta e a cosa potrebbe venir fuori dalla sua forza caricaturale applicata ai nostri usi e costumi, pregusto un divertimento senza pari e nello stesso tempo vengo colto dai sudori freddi. Già vedo le Furie della sua fantasia sbranatrice gettarsi sulla immagine pubblica e privata della società italiana come le donne-poliziotto di Duluth obbligano a raccapriccianti strip-tease i malcapitati illegal alìens, e già ci vedo tutti coinvolti in queste sue pagine gaiamente crudeli, che possono prendere posto nella grande tradizione dell’humour noir da Swift a oggi.
Vidal ci conosce bene e nei saggi e nelle interviste dice sempre cose che colpiscono nel segno: una volta ha definito la società italiana come quella che “combina gli aspetti meno attraenti del socialismo con praticamente tutti i vizi del capitalismo”. Ma certo, lo stare in Italia è per Gore un’avventura meno problematica che per noi; ed è invece un modo di prendere quel tanto di distanza dall’America che gli permette di osservarla meglio. È l’essere americano il suo problema, il definirsi in rapporto alla realtà del suo paese; è la passione per come l’America è o non è che occupa tutti i suoi pensieri. Non è vero che questo enfant terrible non rispetti nulla e nessuno: il suo punto di partenza sono quei principi fondamentali che la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti del 1776 definisce fin dalle prime righe come inalienabili diritti di cui tutti gli uomini sono stati dotati dal Creatore: diritto alla vita, alla libertà, al conseguimento della felicità. Forte di questi semplicissimi principi, Vidal spara a zero contro tutto ciò che li contraddice. Il suo sguardo è d’un pessimismo assoluto, e in Duluth non salva nessuna classe sociale, categoria o istituzione; ma lascia sempre uno spiraglio aperto per un ideale d’armonia, che in questo romanzo viene proclamato dai millepiedi dell’astronave. (Il che non salva questi ospiti extraterrestri dall’essere coinvolti in disastrose speculazioni borsistiche e immobiliari).
Gioco al massacro
Questa passione polemica per la vita pubblica americana e per tutto ciò che si potrebbe definire l’antropologia dell’America nell’era della cultura di massa, è il nucleo di “assoluta unicità” che tiene insieme i tanti Gore Vidal che agiscono contemporaneamente e sotto forme diverse: nella forma del saggio, in cui egli è uno dei maestri contemporanei, insuperabile per la sincerità e l’agilità e la concretezza: nella forma del romanzo contemporaneo come trasfigurazione grottesca del linguaggio e dei miti dei mass-media; nella forma del romanzo storico che brutalmente ci avvicina un passato che ci assomiglia in modo conturbante (e questo tanto nelle interpretazioni del passato del suo paese come Burr e 1876, quanto nelle evocazioni dell’antichità più remota, come il recente Creazione che sta per uscire in Italia da Garzanti); nella forma del teatro, dove converge quell’istinto di Gore che lo porta a far teatro di ogni cosa che egli fa o dice; e sotto le spoglie del conversatore e del personaggio televisivo nelle sue campagne elettorali così diverse da quelle di qualsiasi altro candidato, nei suoi discorsi che fanno a pezzi ogni autorità costituita e ogni certezza prestabilita. Il prototipo è quello che lui chiama il suo Discorso sulla stato dell’Unione, per il quale conosciamo anche le reazioni d’un pubblico d’Americani medi, perché lui stesso ce l’ha raccontato anni fa, in un testo memorabile e unico nel suo genere; infatti di solito gli oratori si limitano a pubblicare il proprio discorso, mentre Gore racconta il discorso come viene detto da lui studiando le reazioni del pubblico frase per frase, registrandone i trasalimenti, i momenti di sollievo, le docce fredde.
M’è capitato d’assistere a uno di questi discorsi di Gore a un pubblico di suoi connazionali, un pubblico che forse non era rappresentativo della media, dato che nessuno si scandalizzava e tutti salutavano il suo jeu de massacre con la complicità e il divertimento più pieno. Ma qual era l’effetto su un ascoltatore straniero come me? Forse quello meno previsto dall’oratore, in quanto mi portava a riflettere che la forza d’un paese si misura dalla sua capacità di mandare giù la critica più radicale, di dige-rirla e di nutrirsene. E mi veniva da dirmi: “Solo in una società sicura di sé, della propria stabilità e buona salute può nascere un polemista come Gore Vidal! E lì che si misura la differenza con la fragile Italia! Da noi chi ha mai fatto una satira così radicale del nostro mondo politico, della nostra morale pubblica, del costume della nostra società? Solo quando avremo scrittori che attaccano con un’allegria così spietata governo e partiti e istituzioni saremo sicuri d’essere diventati una grande potenza!”.
Gore è anche un polemista micidiale nella critica letteraria, e qui bisogna ricordare un’eccezione: quando parla di scrittori italiani è una delle rare occasioni in cui la sua critica è piena di simpatia e di adesione, cosa che venendo da un temperamento come il suo non può che essere sincera. Certo, il Gore polemista non dorme nemmeno in questi momenti di distensione: c’è sempre un’intenzione polemica verso gli altri scrittori e critici americani che lo porta a presentare il nostro lavoro nella luce più attraente. Ma sopratutto il legame tra lui e noi nasce da un confronto di generazione: non dimentichiamo che Gore è arrivato in Italia indossando ancora l’uniforme militare, nel 1948, dopo aver combattuto gli ultimi mesi di guerra sul Pacifico; i ricordi di quell’epoca, la scoperta della povera Italia del dopoguerra in compagnia di Tennessee Williams ritornano spesso nei suoi saggi, ed è significativo il fatto che gli scrittori italiani che egli ha presentato agli americani siano pressapoco suoi coetanei, e abbiano cominciato a scrivere pressapoco negli stessi anni dei suoi inizi, tra guerra e dopoguerra. Insomma, è il senso di un cammino marcato da esperienze e immagini del mondo parallele nel corso d’un quarantennio quello che egli vuole rintracciare, di qua e di là dell’Atlantico.
Invece le bestie nere di Vidal sono gli scrittori e i critici che cercano di sperimentare o di teorizzare nuove forme di romanzo, negli Stati Uniti e in Franda. Esiste dunque anche un Gore Vidal conservatore, almeno sul piano dell’avanguardia letteraria? E difficile ammetterlo, se pensiamo che non si può parlare di rinnovamento della forma del romanzo negli ultimi quindici anni senza rifarsi a quello che è forse il più famoso romanzo di Gore Vidal, Myra Breckinridge. Il burlesque satirico e grottesco e mimetico, compiuto con una specie di collage del linguaggio e dei miti della cultura di massa, è lui che l’ha imposto all’America, inaugurando una nuova fase nel gusto e nella rappresentazione della nostra epoca, con effetti paragonabili a quelli della pop-art, ma con un’aggressività molto maggiore, un’esplosione di comicità espressionistica.
Su questa linea, lo sviluppo del lavoro di Gore da Myra Breckinridge a Duluth giunge a un risultato di grande riuscita, non solo per la densità di effetti comici e pieni di significato, non solo per l’abilità di costruzione, come un’orologeria che nessun word-processor può superare, ma perché quest’ultimo romanzo contiene, built-in, la propria teoria, quello che l’autore chiama il suo “après-post-strutturalismo”.
Certo l’intenzione esplicita di Gore è di fare la parodia all’odierna voga universitaria per la “narratologia”, ma non per questo la sua metodologia mi pare meno rigorosa e la sua esecuzione meno perfetta. Per cui considero Gore un maestro di quella nuova forma che va definendosi nella letteratura mondiale e che possiamo chiamare iper-romanzo o romanzo elevato al quadrato o al cubo.
L’universo del riso
Quanto alle polemiche di Gore contro i nuovi esperimenti nella narrativa, non le condivido come tendenza generale, perché spero sempre che possa saltar fuori qualcosa che ridia vitalità al panorama letterario oggi così esangue; ma c’è un punto in cui la preoccupazione di fondo di Gore è anche la mia: il rischio che corre oggi la letteratura è di ridursi a una materia di studio per le università; il fenomeno già sensibile negli Stati Uniti d’una letteratura prodotta e consumata quasi esclusivamente all’interno dei campus, non apre delle prospettive rallegranti. (Complementare a questa tendenza, c’è il dilagare d’una narrativa di massa prefabbricata per un pubblico sempre meno esigente: la scrittrice alla moda che non sa scrivere né leggere ma si serve di ghost-writers, è anche quello un personaggio di Gore, in Kalki e ora in Duluth).
Comunque, sta pur sicuro, caro Gore, Duluth è uno di quei romanzi sui quali nelle università si faranno corsi, seminari, tesi, trattati irti di schemi. Da questa sorte non ti potrai salvare! L’importante è lo spirito che ci hai messo dentro e che corre senza fermarsi in tutte le tue pagine.
Questa è l’osservazione con cui vorrei chiudere il mio saluto a Gore: egli fa parte di quel numero di scrittori del nostro tempo, che proprio perché hanno sempre tenuto gli occhi aperti sui disastri e le storture della nostra epoca, hanno scelto come metodo di resa letteraria l’ironia, il sarcasmo, lo humour, la comicità, insomma quella gamma di procedimenti letterari che appartengono all’universo del riso. E su questo terreno che la letteratura può rispondere alla sfida della storia: in un’epoca di mistificazioni tragiche, in cui il linguaggio serve più a mascherare che a dire, i soli discorsi seri sono quelli fatti come per ridere.