Un po’ più di spirito d’avventura, di Giulia Caminito

Di quanto serva alla scrittura dimenticarsi del proprio bios

Giulia Caminito è una delle giovani scrittrici più interessanti del panorama italiano. Si è affermata nel 2021 con il romanzo uscito da Bompiani L’acqua del lago non è mai dolce. Ospitiamo un suo intervento sulla relazione tra io, scrittrice e scrittura.

Qualche anno fa mi sono accorta che scrivendo la mia corrispondenza virtuale ero solita usare assai spesso la parola “io”. “Io penso che”, “io verrei”, “io ti aspetto qui”. E me ne sono spaventata, mi sono chiesta se questa necessità di rimarcare l’io non fosse che una deriva di insicurezza o anche un eccesso di individualismo, il mio bisogno di essere sempre presente in ogni frase. Per molto tempo, dall’altro lato e per contrario, non ho avuto la forza di scrivere in prima persona, cioè di imbarcarmi in una narrazione con un io narrante, centrale e ben connotato, che potesse fare da voce unica e convinta dei fatti e dei pensieri. Quando ho deciso di farlo, quando cioè ho creato un personaggio altro da me ma che ho voluto far parlare in prima persona, mi sono resa conto di una immediata confusione in chi mi leggeva. L’io della messaggistica quotidiana e l’io della narrazione si erano fusi irrimediabilmente e così anche me stessa e la voce narrante del mio romanzo.

In effetti, mi sarei dovuta aspettare questo tipo di reazioni, che sono ormai diventate piuttosto comuni: la distanza tra chi scrive e l’io narrante si è nel tempo ristretta allo sguardo del lettore e della lettrice, educati, soprattutto nell’ultimo decennio in Italia, alla categoria dell’autofiction e del memoir romanzato. Eppure è stata per me una strana esperienza di sdoppiamento, chi leggeva il libro veniva a chiedermi conto di particolari della vita della mia protagonista, non come dettagli di una scrittura d’invenzione, ma come dati di fatto oggettivi, reali riferimenti d’esistenza.

Mi sono quindi dovuta giustificare, a volte quasi sentendomi in colpa, come se avessi mentito, come se avessi voluto sfruttare una vita non mia per il mio tornaconto personale e cioè quello della scrittura.

Questa evidente deriva del giudizio in chi legge credo sia dovuta a una abitudine alla centralità dell’io-che-si-racconta legata ai social media, ma anche all’attenzione quasi maniacale e scabrosa nei confronti del bios, dell’elemento più autentico della vita, quello biografico, quello privato e nascosto.

Siamo nell’era del biopic, dove una singola vita, da quella di una influencer a quella del Dalai Lama, viene rivelata attraverso la forma documentaria nella sua ipotetica interezza e resa di dominio pubblico, nonché di pubblico interesse. Ma non è solo il lettore o la lettrice comune a proiettare sugli io narranti le fattezze di chi scrive, questo errore di forma e questa richiesta di autenticità coatta raggiunge spesso anche la critica letteraria o cinematografica.

Il discorso è complesso e scivoloso, ma si potrebbe riassumere provando a parlare di rappresentazione e di sensibilità politica. Non siamo nuovi, infatti, ad alcuni dibattiti che riguardano le persone trans interpretate di recente da attori o attrici non trans nei film o nelle serie tv, o da scrittrici non nere che traducono opere di poete afrodiscendenti, o alle critiche feroci che può ricevere un film i cui protagonisti abbiano comportamenti scorretti, razzisti, omofobici eccetera. Lo stesso può capitare in letteratura, dove per esempio la fascia economica di provenienza di chi scrive dovrebbe, secondo alcuni, limitarne i temi di scrittura. La richiesta è quella di lasciare spazio a chi per secoli non ha potuto essere rappresentato e non ha avuto voce letteraria – come qualsiasi persona marginalizzata per questioni economiche, sociali, politiche – piuttosto che delegare ai soliti privilegiati il potere di impossessarsi, appropriarsi, della vita altrui per farne romanzo.

Queste domande non sono solo legittime, ma fondamentali, per quanto riguarda la società e per quanto riguarda anche l’educazione, l’accesso alla pubblicazione, la necessità di maggiori storie dai bordi piuttosto che dal centro del mondo, eppure, se troppo estese, rischiano di minare nel profondo uno dei motivi principali per cui si scrive e si è scritto e cioè la possibilità di fingersi altro da sé, di scomparire nella scrittura, di dimenticarsi del proprio bios, della propria esperienza diretta per costruirne un’altra credibile, affascinante, disturbante, complessa e per questo intensa e convincente.

Vari sono gli elementi da prendere in considerazione, credo, per ragionare su questa questione difficile. Intanto, come diceva Elsa Morante, spesso c’è molto di più dell’io di chi scrive nei romanzi che nella propria biografia (lei detestava le biografie e i dati biografici, per anni ha finto la propria data di nascita); inoltre come si può essere certi che sia la realtà, la verità dei fatti biografici a interessare la letteratura, o quantomeno, che si possa pensare che quello sia l’unico campo d’azione per il suo futuro e sviluppo?

Poi, girando la prospettiva, come stanno già facendo alcune scrittrici e scrittori di seconda generazione in Italia (quali Nadeesha Uyangoda ed Espérance Hakuzwimana), questa ossessione all’io-esperienziale rischia di trasformarsi per loro nella figura unica dei testimoni oculari, di imprigionarli nella narrazione dei soprusi o delle problematiche sociali subite, vista la marginalizzazione di cui sono stati possibili vittime. Certo, alcuni sentiranno il forte bisogno di esprimere questa oppressione raccontando la propria storia e mettendo a disposizione dell’io narrante la propria diretta condizione di vita, ma molti e molte altre no. Non è infatti detto che chi arriva per esempio da un ex contesto coloniale voglia parlare di colonialismo, che chi ha seguito un percorso di migrazione del sesso biologico voglia parlare di transessualità, eccetera.

Lo schiacciamento dell’io sulla vita porta quindi a un senso di soffocamento in più direzioni, un impoverimento della sfera dell’invenzione e una continua lotta al più autentico: non raccontare per quello che non sei e non sai. Sapere ed essere diventano in questa prospettiva alleati fondamentali, condizioni imprescindibili alla scrittura. Questo io atrofizzato sul vissuto porta anche a un impoverimento narrativo, avvicinando infatti il narratore o la narratrice alla realtà siamo portati a considerare quel punto di vista come sincero e assolutamente insindacabile nella sua attrattiva genuina, mentre molta della letteratura più vivace e intelligente si è costruita intorno a forme di io inaffidabili, a menzogne, a flussi di coscienza ininterrotti e amorali, a confessioni irreali e disturbanti, a segreti da non condividere neanche con il lettore.

Tutto questo spazio, lo spazio del non detto e del non dicibile, che fine fa all’interno della narrativa-verità? Dove si collocano le stramberie, le allucinazioni, le divagazioni, se l’io deve diventare una forma di scrittura iper-comunicativa e senza ombre, senza zone cieche?

Quando si dice, ancora oggi, come secoli fa, che il romanzo è morto o sta morendo, spesso si allude anche a questo, alla risicata presenza di narrazioni costruite per fingere, per non dire la verità, per architettare mondi lontanissimi o immaginare vicinissime colluttazioni con la società e il presente.

A chi dare la colpa di questo assottigliamento? In parte, penso, alla società della comunicazione, se mai di colpa si possa parlare per un fenomeno globale e inarrestabile; in parte all’editoria che da anni più che lanciare trend li insegue, cercando di proporre al pubblico non quello di cui avrebbe bisogno ma quello di cui chiede il consumo; in parte anche nostra, di chi scrive, se invece di proporre con più coraggio le nostre idee e aspirazioni, le nostre necessità e sconfinamenti, ci limitiamo a scegliere le strade più accettabili, più aderenti allo stato dei gusti del momento.

L’autobiografismo è una parte della letteratura che io ho sempre amato, e che non potrei mai sminuire, e lo stesso vale per la necessità di una maggiore presenza di alcuni attori sociali nel mondo delle lettere, ma d’altra parte non posso non notare il danno che certe concezioni limitate e limitanti fanno alla nostra scrittura, e quanto maggiore spirito d’avventura ci vorrebbe per proporsi come antitendenze e fare come i salmoni: andare contro corrente pur di risalire alla fonte, continuare il ciclo della vita.

G. Caminito è scrittrice