Nei territori fecondi delle forme brevi e brevissime
di Andrea Inglese
Nella postfazione al suo Tutti i nostri corpi. Storie superbrevi (Voland, 2020), lo scrittore bulgaro Georgi Gospodinov s’interrogava sul destino editoriale della sua forma prediletta, il microracconto. “Nella letteratura odierna esiste una gerarchia affermata, secondo la quale al di sopra di tutto sta il romanzo e il resto, racconti, poesia, saggi, esiste piuttosto grazie alla benevolenza degli editori e del mercato. Cosa rimane per i racconti molto brevi, frammenti e quasi-aforismi?” È difficile parlare per l’enigmatico dio mercato, ma sembra che, anche in Italia, stia cominciando a emergere un certo interesse per le forme letterarie brevi e brevissime: un’editoria, giovane e piccola, ha rivelato una produzione vivace ed eterogenea di autori sia stranieri sia italiani. È per certi versi paradossale, soprattutto in un panorama come quello contemporaneo, che vede non solo l’ovvia dominazione del romanzo, ma in particolare di quello espanso, extralarge, e anche a firma di autori italiani: basti ricordare i due Premi Strega: La scuola cattolica di Edoardo Albinati (1294 pagine) e M. il figlio del secolo di Antonio Scurati (848 pagine). La forma breve contesta per sua natura ogni ambizione epica e, più in generale, la pretesa della narrazione romanzesca di proporsi come un modello di totalizzazione della realtà, in grado di colmare persino i vuoti della documentazione storica. Ritroviamo qui quello scetticismo attivo nei confronti dell’impianto realistico, che costituiva già per Julio Cortázar un fattore fondamentale dell’arte del racconto. Citando Alfred Jarry, egli considerava che, nello studio delle realtà, le eccezioni alle leggi contano più delle leggi stesse.
In effetti, le forme prosastiche brevi di oggi hanno radice nella tradizione del racconto moderno, che da Edgar Allan Poe arriva fino a noi, passando per Kafka, Charms, Borges, lo stesso Cortázar, oltre che per i nostrani Celati e Malerba. Di quest’ultimo, vale la pena di ricordare due riedizioni pertinenti per il nostro discorso: Le galline pensierose (Quodlibet, 2014) e Avventure (Italo Svevo, 2020). La prima edizione delle Galline risale al 1980 per Einaudi. Con blocchi di prosa numerati e spesso non più lunghi di cinque righe, Malerba ha realizzato una spassosa enciclopedia tascabile della demenza, esplorando il pensiero delle galline alle prese con i massimi e (più sovente) minimi sistemi, a cui sono confrontate nel corso della vita. In Avventure, uscito inizialmente nel 1997, i racconti si distendono su più pagine, e mettono in scena dialoghi tra celebri personaggi di finzione, che provengono però da storie letterarie e contesti culturali del tutto diversi, come Sancio Panza e Anna Karenina o Frankenstein e Don Abbondio. Due tattiche narrative diverse per un medesimo obiettivo strategico: sovvertire quel quadro ordinato di significati, attraverso cui il romanzo cerca di decifrare il reale.
Il campione contemporaneo della brevità e della trasgressione di ogni verosimiglianza narrativa è probabilmente il messicano Alberto Chimal, specialista di minificciones. Di lui, l’editore pièdimosca di Perugia ha pubblicato nel 2023, 83 romanzi. Come già Gospodinov, Chimal esibisce un intento polemico, presente fin dal titolo (i “romanzi” in questione quasi mai eccedono le tre righe) e ribadito nel testo introduttivo, che funge anche da manifesto di poetica. In esso troviamo due passaggi importanti: “I mondi narrati sono minuscoli sulla pagina ma si dilatano nell’immaginazione” e “Le serie in corso sono abbozzi di diverse versioni di un mondo, o di molti mondi diversi ma vicini”. Due tratti che contribuiscono a definire il carattere monadico delle forme brevi e brevissime: esse producono discontinuità, rottura con ogni connessione “esterna”, tagliano i ponti con i contesti, funzionano, insomma, secondo una modalità autistica e autocentrata. Non estendono il fascio di narrazioni esistenti, siano esse finzionali o documentarie, ma resistono come eccezioni, corpi estranei, emblemi inassimilabili di mondi alternativi. Questo, però, come accade in opere d’arte contemporanea, implica un’attiva collaborazione del lettore, che deve prestare al testo il suo potenziale immaginativo. In un’intervista, Giorgio Manganelli aveva dato una sua definizione di romanzo a proposito di Centuria: “Quaranta righe più due metri cubi d’aria”, per poi aggiungere: “Io ho lasciato solo le quaranta righe”. Chimal le ha ridotte a tre o quattro. Titolo: Andrà tutto bene; testo integrale: “Il dottore prese il bisturi con una mano, con un’altra le pinze e con la terza la maschera dell’anestesia”. Altro esempio: Cosmologia 8; testo integrale: “In uno dei mondi possibili il linguaggio non è stato inventato. Forse gli abitanti sono felici, ma nessuno può dirlo”.
Vengono in mente anche I romanzi in tre righe dell’anarchico Félix Fénéon (Adelphi, 2009), autentico capostipite del genere, che lo sperimentò nel 1906 sul quotidiano “Le Matin”. Nonostante il tono asciutto e impassibile, Fénéon trasforma i suoi trafiletti di cronaca nera in altrettanti “strappi” nel tessuto della realtà borghese d’inizio secolo. Siamo sulla stessa lunghezza d’onda di Chimal, anche se in quest’ultimo riscontriamo una nota di disincanto ma anche di ironia maggiore. Il postmodernismo letterario è passato nel frattempo nei territori della brevità, ma ha lasciato comunque intatta la volontà di scompaginare codici e canoni letterari maggiori o soltanto maggioritari. E questa stessa volontà sembra condivisa dagli autori e le autrici tutte italiane (ben 35), che hanno partecipato a Multiperso. Antologia di microfinzioni apparsa sempre per pièdimosca nel 2022. Multiperso, primo titolo della collana “glossa”, diretta da Carlo Sperduti, che ha in seguito ospitato anche Chimal. “Glossa”, scrive Sperduti, “sceglie la forma brevissima in quanto campo privilegiato di ricerca, sospensione, deragliamento, mistero, esattezza, stile, densità, spostamento”, e lo spettro delle esplorazioni che ne risulta è assai ampio. Si va dai racconti calibratissimi e “classici” di Fiammetta Cirilli, su di un quotidiano ispezionato nei minimi dettagli, alla scrittura automatica di Francesca Perinelli, che procede per lapsus e condensazioni oniriche. Tutte le propaggini dell’inverosimiglianza narrativa, dal fantastico all’assurdo, sono frequentate. Ma non manca neppure la giocosità programmata in stile OULIPO, come nel caso dei Racconti alfabetici di Cristò.
Nel buon fantastico, ricordava sempre Cortázar, vige “l’alterazione momentanea all’interno della regolarità”. Nel caso delle microfinzioni, è l’alterazione stessa che, manifestandosi, crea intorno a sé una serie di conseguenze regolari. In altri termini, dato l’antimondo, sono date anche le regole e le leggi che lo organizzano. Prendiamo tre incipit. “Un toro di dimensioni infinite cerca di entrare in una piccola porticina ma non riesce, per via della sua grandezza” (Il toro infinito di Ivan Talarico). “La caduta dei piedi ebbe inizio alle ore 72 e mezzo del 56 aprile” (Piazza dei Martiri di Alfonso Lentini). “Quando la bambina si svegliò con una testa di giraffa e senza mai aver letto Kafka, là per là non ebbe grossi grattacapi” (Giraffe di Gunther Maria Carrasco). In Multiperso le vie dell’eccezione sono davvero molteplici e spesso fuoriescono dalla stessa forma del racconto, per avvalersi di procedimenti più poetici e, in ogni caso, più avanguardistici come il montaggio, il cut-up, la frantumazione sintattica. È il caso dei testi di Marco Giovenale, poeta della sperimentazione che affianca a una vasta produzione in versi libri difficilmente collocabili, in una prosa che si vuole antilirica e antinarrativa.
Giovenale non è l’unico autore dell’antologia proveniente dal mondo della poesia. Va citato almeno anche Antonio Francesco Perozzi, presente come poeta nel Sedicesimo quaderno italiano (Marcos y Marcos, 2023). D’altra parte Multiperso si avvale di talenti che si sono già affermati in diversi ambiti: quello della canzone d’autore (Ivan Talarico), del teatro (Antonio Sinisi), della traduzione (Eda Özbakay). Anche sul piano generazionale, vige una gran varietà.
Un’ultima menzione merita un altro antologizzato, Massimo Gerardo Carrese, che si ripresenta con un volume di prose brevi per déclic edizioni nel marzo 2024, Spuntisunti. Carrese, fantasiologo di professione – come si definisce –, mostra di aver assimilato la lezione di Paolo Nori, per quanto riguarda l’arte dell’anacoluto. In lui, però, prevale un’attenzione all’infraordinario, all’inezia, alle scorie mentali della più piatta quotidianità, e su questi minimi elementi costruisce una serie di fantasmagorie e paradossi, in grado di mettere in crisi il nostro senso della realtà. Malmenare la sintassi, per Carrese, costituisce inoltre un esercizio di esibizione comico-corrosiva del tasso di ideologia che la lingua ordinaria veicola. Se parlare “bene” significa parlare per frasi fatte o slogan pubblicitari, allora meglio disfare le frasi, permettendo magari di produrre non solo non-senso, ma anche nuove forme di senso. Ancora una volta, insomma, la forma breve e il territorio scontornato della prosa si rivelano vitali e fecondi sul piano letterario, pur costituendo un’anomalia nel panorama editoriale. Ma si tratta di un’anomalia felice.
andrea.inglese@gmail.com
A. Inglese è scrittore e traduttore