L’ideale di una cultura come critica
di Domenico Calcaterra
A Giulio Bollati, di cui quest’anno ricorreva il centenario della nascita, sembra si addica l’oroscopo, parafrasato e cambiato di segno, che Garboli fulmineamente aveva tracciato di un grande torinese come Mario Soldati, un “narratore dell’Ottocento con l’anima di uno scrittore del Novecento”. Giulio Bollati di Saint Pierre fu sì del tutto figlio del Novecento ma con testa e cuore pienamente rivolti all’Ottocento, come sottolinea anche Tommaso Munari nell’introdurre l’edizione delle Lettere e scritti editoriali, che testimoniano l’infaticabile attività editoriale e culturale, il nitore del pensiero e la mai contrabbandata onestà intellettuale dell’editore e saggista. Lettere e scritti che, oltre a dar misura del perimetro d’interessi e intendimenti che mossero Bollati, dimostrano la sua grande lucidità nel leggere i processi storici in atto e nell’intuirne le ripercussioni sui “gesti” editoriali necessari da compiere (terreno su cui sempre più spesso entrerà in attrito con Giulio Einaudi fino alla definitiva rottura): fedele, Bollati, a un ideale di “cultura come critica”, unitaria e senza schisi di sorta; una cultura (e dunque un’editoria), per la quale i libri non siano mera merce. Nutrito, insomma, da un impulso che potremmo definire senza mezzi termini “civile”, o meglio ancora “pedagogico” (come scriveva a Franco Basaglia il 9 aprile 1973), per impedire che gli “uffici politici” possano sempre “attingere nel serbatoio di ignoranza delle nuove generazioni”. Osservazione che, letta oggi, certamente fa specie, in un paese in cui l’ignoranza dilaga nelle aule politiche ed è quasi con vanteria istituzionalizzata, mentre il diritto di critica è avversato come la peste.
Convinto dello stretto legame che unisce, a refe doppio, letteratura e storia (si veda la lettera a Nuto Revelli, 18 settembre 1975), sua fu la preoccupazione di problematizzare e mettere a sistema quell’indagine sul carattere nazionale consegnata nell’ormai classico L’Italiano (1983), “uno dei saggi più concreti, più densi, più marxisti (in senso scolastico) che si potesse immaginare” (così Sebastiano Timpanaro). Sta infatti, per Bollati, nel secolo tra illuminismo e risorgimento lo snodo nevralgico cui mirare per comprendere l’origine di un’ideologia italiana irrimediabilmente scissa, tra avvertimento critico di una condizione di arretratezza (rispetto alle altre nazioni europee) e nostalgico crogiolarsi nel mito di un glorioso passato da preservare e riscattare. Movente ad alimentare un’implicita autobiografia che agisce “restando in ombra”, come chiosa Alfonso Berardinelli nell’introdurre la raccolta di saggi L’invenzione dell’Italia moderna (riediti di recente da Bollati Boringhieri), i suoi studi per mettere a fuoco la questione dell’ideologia patria furono riformulazioni e variazioni sul tema, quasi al limite dell’ossessione. Ripercorrendo le pagine degli scrittori italiani, da Alfieri a Manzoni, dal cenacolo illuminista del “Caffè” dei fratelli Verri al “Politecnico” di Cattaneo, svela l’impietoso quadro della minorità italiana nel difficile cammino verso una piena modernità, con intellettuali nella sostanza sovente in rotta rispetto alle rivoluzioni politiche, sociali ed economiche che sconvolsero l’Europa e il mondo, in nome di una declinazione tutta nostrana e attardata delle patrie sorti progressive; associata, in fondo, a un’atavica sfiducia politica nel popolo (non a caso già Manzoni, nel Proclama di Rimini, scriveva che il “gregge” italiano necessita di “un uomo che ci raduni”). Che inforchi le lenti della manzoniana utopia della “società benevolente” dei Promessi sposi o scruti le cose dalla siderale distanza cui invita a guardare uomini e cose l’amato Leopardi delle Operette morali, Bollati perviene alla medesima disincantata conclusione del sussistere nella cultura italiana sette-ottocentesca di un invincibile complesso che ha pesantemente condizionato l’ideologia patria.
Poter rileggere i saggi di Bollati ha il sapore sempre, per il lettore, d’una festa: l’invito a un simposio in cui modernità ed eleganza (caratteristiche che già il poeta dell’Infinito considerava indispensabili per chi scrivesse in lingua italiana) vanno meravigliosamente a braccio. E a voler restare ancorati alla critica che fomenta un’implicita autobiografia, mai parole sembrano meglio attagliarsi a descrivere la qualità principale del saggismo bollatiano di quelle che lo stesso studioso utilizza per chiosare il Leopardi della Crestomazia: “stile è la capacità dell’uomo intellettuale di vivere eticamente ed esteticamente la sua esperienza conoscitiva”. Per concludere: “Lo stile è l’uomo”. La profondità delle sue prospezioni, i sotterranei fili che nei suoi scritti tende a ritorcere, lo apparentano a quel modus operandi che egli stesso definì, a proposito dello stile investigativo del Raimondi di Romanzo senza idillio (1974), “critica delle radici” (Lettera a Ezio Raimondi, 20 novembre 1973). Anche se Bollati – in fatto di critica si legga a riguardo la lettera a Elsa Morante su La storia (25 febbraio, 1974) – opta sempre per il profilo basso di un benedetto soggettivismo da lettore comune, senza pretesa alcuna di verità assolute (“io non sono e non voglio essere un critico”). Eppure sa bene, come scrive a Oreste Del Buono nel partecipargli le sue “impressioni” di lettura su La fine del romanzo (1974), che scrivere di un libro, inevitabilmente, “vuol dire avventurarsi a fare della critica letteraria” (Torino, 3 maggio 1974). Curiosa ammissione per uno che, a differenza dei suoi tanti amici e compagni di strada, aveva scelto di essere “soltanto un editore” (così a Cesare Cases, 24 gennaio 1979).
Ma nonostante le cautele e la costante deminutio, si legga, nella lettera indirizzata a Calvino il 20 gennaio 1979, con quale implacabile acume rivolta come un calzino il Se una notte d’inverno, puntando il dito sullo sbaglio della pervasività della cornice dell’iper-romanzo e registrandone l’evidente tratto d’autobiografia involontaria nell’ossessiva “onnicalvinità” che pervade l’intero libro; e che, nel poscritto, finisce per definire “un trattato nichilista (dunque anche esistenziale) della letteratura”. C’è poi il Bollati delle Memorie minime, talvolta rubricato come minore, ma poi non così distante dall’editore e saggista, giacché nei suoi quasi-racconti possiamo scorgere un’analoga tensione, il medesimo costante interesse circa la possibilità di ricostruire una visione del mondo attraverso l’esercizio della scrittura. Che racconti di un viaggio particolare, di una ricerca delusa o di talune sue passioni, le sue prose narrative rivelano un’interna coerenza, pur nella diversità delle occasioni che di esse sono state il movente. Sembra che a Bollati riesca lo stesso miracolo che sapeva compiere Leopardi, quando dalla realtà ne sapeva “inventare” (I “figurati armenti”) un’altra più vera. Come a dire che situazioni minime vissute diventano emblematiche di un modo di mettere su carta la prosa della vita. E sembra ancora che il versante entro cui ricadono queste prose sia proprio quello, attraverso lo spartito fisso della memoria, “eternamente impreciso” tra mito e storia (La musica). Dalla vicenda privata, dalla storia personale, nel ricordo, nella riedificazione che si compie nel momento della scrittura, Bollati, ridotto a “spettatore” di sé stesso, si abbandona al sortilegio di consegnare sulla pagina fatti che, proprio per il modo in cui persistono nella memoria, “nel dislivello tra ciò che siamo e ciò che immaginiamo” (Gli oleandri), acquistano un sapore quasi mitico. Come non pensare al Mario Soldati di Rami secchi (1989), per quel dire “io”, ma come si trattasse dell’anima d’un altro?
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D. Calcaterra è insegnante e saggista