Un romanzo del molteplice: note a margine
recensione di Maria Grazia Sancipriano
dal numero di dicembre 2017
Valerio Callieri
TEOREMA DELL’INCOMPLETEZZA
pp. 352, € 18
Feltrinelli, Milano 2017
Ormai a un anno dall’uscita di Teorema dell’incompletezza, vincitore ex aequo della XXVIII edizione del Premio Calvino, e dopo tante recensioni, possiamo concentrarci su alcune note a margine, per sondare senso e valore del romanzo. Protagonisti sono due fratelli: di uno, il fratello maggiore, solo il soprannome, Chicché − ha trent’anni, si ripara invano in un vivere accidioso, tra gli amici del quartiere romano di Centocelle − è il Narratore, interlocutore del padre che, fantasma vivissimo, ora gli svela la sua vera vita; l’altro è Tito, “più guardia che fratello”, servitore della legge, crede e non ha paura, ma come agisce e chi è si rivela a mano a mano. Il legame tra due fratelli così diversi è di acciaio nelle prove di forza, quando si trovano da parti opposte e lottano con se stessi prima ancora che l’uno contro l’altro.
È il mese di luglio del 2011, “sotto il sole feroce del tramonto romano”, il Narratore siede al bar, quello in cui suo padre − che ne era il proprietario − venne ucciso in un’apparente rapina, era il 2004; davanti a un tavolino di plastica rossa, legge il giornale pieno di frasi fatte, ha in mano il bicchiere di succo di pera e ghiaccio, il vento gli fuma la sigaretta, soffia imprevedibile sulle cose. Imprevedibile è anche il giungere di Sirio, suo amico, il protagonista più forte tra i giovani di Centocelle: gli dice che ha ritrovato la cornice nera − che inquadrava tre monete celebrative di scudetti della Roma − scomparsa nel corso della rapina. Sul bordo interno del legno si leggerà la frase che muove i due fratelli a rivedersi, dopo un tempo di lontananza, per indagare sulla morte e sulla vita del padre. La cornice “crea varchi spazio-temporali” perché il passato che narra il padre, il fantasma-che-vive, ora modifica il presente e i due fratelli scompongono pezzo dopo pezzo la realtà degli anni di lotte politiche in Italia, tra il 1968 e il 1978, quando la vita di singoli e quella di un intero Paese è tragica frantumazione, mai figura completa. L’incompletezza assomiglia a un “pezzo di ceramica che non combacia mai quando vai a incollare”, l’immagine ricorre nel romanzo fino a quando il Narratore, Chicche’, contro ogni sua “accidia” compie un gesto estremo: allora, come dice il titolo Teorema dell’incompletezza che rimanda al logico matematico Kurt Gödel, si impara che esistono “cose vere che il cervello non può spiegare. Cose che non puoi sapere come andranno a finire”.
Ai giovani di Centocelle, la violenza che attraversano non toglie l’ironia, il calore del gergo: il loro quartiere − anche di Valerio Callieri, che vi è nato − è “greve e solare e sgarrupato”, una zona di Roma “affastellata, terrosa, dentata”; sempre in movimento, i personaggi hanno un’originaria resilienza ai colpi che cadono loro addosso, si riparano con il continuo dire le cose in forma di esagerazione lieve e grottesca. Un realismo puntuale e puntiforme è il colore di tutta la storia: i quartieri di Roma, di Torino; i paesi NoTav in valle Susa; il treno del Sud che arriva a Torino; gli altiforni della “feroce Fiat”, e l’esplosione; gli operai che non ce la fanno più; i militanti comunisti, gli anarchici, che “credono”. Così non può esserci una lingua pacificante di tutti per tutto, ci sono il gergo, i dialetti che risalgono l’Italia, i dialoghi scorrono senza interpunzione, l’italiano irrompe nei continui flussi di pensiero, ricerca quelle parole, che si ripetono e si ripetono.
In Criptato-Diario, 16 inserti che cadenzano la narrazione, Tito dialoga con se stesso, annotando la storia d’Italia dal 1948 al 1980, un dipinto di pochi colori con vuoti improvvisi, e lì si interrompono comprensione e giudizio. Il lettore se ne deve assumere la responsabilità: non da poco. L’impenetrabile del Criptato-Diario sono gli anni sessanta e settanta, quando in Italia sparivano “i valori” di prima − “la scomparsa delle lucciole”, secondo la metafora di Pasolini (Il vuoto del potere in Italia, “Il Corriere della Sera”, 1° febbraio 1975). Nell’invenzione di Valerio Callieri, la cornice nera nasconde lettere di Aldo Moro, e tutti hanno a che fare con questa “cosa”. Nella Nota dell’autore, egli scrive: “Ho cercato di costruire il mondo di ieri con una meticolosità al limite della rabbia… spero bene che le persone riconoscano i fatti storici come decisamente non casuali. D’altronde la letteratura ha bisogno di inventare e tradire i personaggi per arrivare a una verità più profonda. Al di là di quanto il romanzo riesca nell’intento, credo che la letteratura sia l’ombra inosservata della realtà storica e che ne proietti una sagoma essenziale”.
Se conoscere e vivere sono continuo movimento di parti, di parti nelle parti, vicino e lontano, in un tempo non lineare, anche un principio senza fine, quale letteratura è possibile che inventi o descriva realtà?
Nelle Lezioni americane, Calvino introduce “Molteplicità” citando Gadda, l’inizio di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana: la realtà è “inestricabile complessità, presenza simultanea di elementi eterogenei, ogni minimo oggetto è il centro d’una rete di relazioni”, si moltiplicano i dettagli, “descrizioni e divagazioni diventano infinite”. La citazione si presta “molto bene” al tema della conferenza: “il romanzo contemporaneo come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattutto come rete di connessioni tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo”.
In Teorema dell’incompletezza si rintracciano la molteplicità e la rete? Le prime pagine anticipano minimi di narrazione, incipit molteplici per il farsi della storia; un flusso di pensiero dice punto dopo punto quello che il Narratore impara in soli venti giorni, simmetrico alla fine dice quello che ha imparato, con i dettagli dell’inizio, bar-tavolino rosso-succo di pera e ghiaccio, solo il vento non si fuma più la sigaretta. E nella storia: la cornice nera nasconde e non nasconde i segreti, appartiene ed è rubata, persa è ritrovata, il figlio la porta sulla tomba del padre, la riprende, è riappesa al posto di prima, nel bar venduto al cinese Wang. La vita e l’imprevedibile morte di Clelia e di Pierpaolo, lei brigatista, coinvolta in tutta la vita del padre che la ama e la perde, lui tessitore di segreti all’ombra del Potere; le sparizioni delle lettere di Aldo Moro, moltiplicano il mistero, fino ad oggi.
Metafore del mistero − quello fantastico e quello del non-dire − sono alcune parole ritornanti che si configgono nel molteplice della storia, costituendo nodi della rete: la “voce” − apre al padre i passaggi tra morte/vita, tra passato/presente; la “cosa” − sostituisce quello che non-si-dice; le “cavallette verdi” − pensieri del Narratore, come falangi di insetti, sostengono ora l’accidia ora l’azione; “l’Ospite” − sempre atteso, forse è Dio forse no; le “lettere” e la “cornice”; i “cadaveri insepolti” − molti, troppi, ancora “gravano sugli alberi”; “quel nome”, infine, di un fosco uomo di Governo, diade che ha l’occorrenza più alta.
Possiamo dunque rispondere di sì alla domanda che ci simo posti: il romanzo di Valerio Callieri è movimento, rete, molteplicità come oggi sono la realtà e l’uomo. Ed è anche letteratura che ha memoria del passato.