Stefano Adesso – La nuda proprietà

OPERA SCELTA PER IL RETELLING: Città sola, Olivia Laing, Il Saggiatore, 2024

ELEMENTO SCELTO: incipit

Immaginate di stare alla finestra, di notte, al sesto o al settimo o al quarantatreesimo piano di un edificio. La città si rivela come un insieme di celle, centinaia di migliaia di finestre, alcune buie, altre inondate di luce verde o bianca o dorata.

Stefano Adesso
La nuda proprietà

Immaginate di stare alla finestra, di notte, al sesto o al settimo o al quarantatreesimo piano di un edificio. La città si rivela come un insieme di celle, centinaia di migliaia di finestre, alcune buie, altre inondate di luce verde o bianca o dorata.

L’affare si presentò alla fine di un pomeriggio già buio per l’ora solare. L’appartamento si trovava sul lato opposto della strada, ed era grande più del doppio di quello suo attuale, con un bel cortile interno che il proprietario aveva curato per decenni. Questo le spiegò l’agente.

La donna lo percorse guardando in alto, come si usa in chiesa, e facendo le domande che Internet le aveva suggerito di fare. Analizzò il soffitto di ogni camera e lasciò scorrere l’acqua dai rubinetti. Osservò i libri ordinati in sala: non rivelavano se fosse un uomo colto o meno, ma di sicuro era uno che ci aveva provato. Poi si fermò sulle foto alle pareti: lo vide con quelli che dovevano essere i suoi figli, tre. Imparò a conoscerlo ancor prima di incontrarlo, e intuì che quella era la sua unica occasione per permettersi una casa del genere.

“Quanto gli resta?” chiese infine, voltandosi verso l’agente. L’agente sorrise.

La proposta arrivò quello stesso pomeriggio. Il rogito in sei settimane. Dal notaio si presentarono le versioni adulte dei tre bambini che aveva visto in foto, e furono cordiali: ad Açelya chiesero solo – data la situazione particolare – di evitare l’argomento con lui, per timore di turbarlo.

Tutto filò liscio, e così rapido che solo dopo qualche giorno lei si trovò a riflettere su ciò che la attendeva ora: quando per la prima volta vide il dirimpettaio – l’anziano padre – dalla finestra del proprio monolocale, e capì che adesso avrebbe dovuto pregare affinché quell’uomo morisse.

La prima volta che gli passò accanto, il signor Valerio rientrava con due buste della spesa. Da poco erano trascorse le otto di mattina. Non aveva ancora perso certe abitudini, evidentemente, eppure – pensò Açelya – passeggiava col ritmo di chi non deve più correre dietro al denaro. Da decenni non conviveva più col timore che l’inflazione lo spingesse agli angoli della metropoli. Era nato in quel quartiere ottant’anni prima e vi era cresciuto così com’era cresciuto il valore dell’immobile: fuori dalla sua volontà.

Cosa ne avrebbe fatto dei suoi soldi? Li aveva già spartiti tra i tre figli? Li avrebbe trasformati in una crociera per anziani, in carne di prima scelta, in un gentile omaggio a qualche truffatore? Valerio le camminò di fianco, la testa calata nella spesa, ignaro di trovarsi vicino a chi, indebitandosi a vita, gliel’aveva pagata. Il tabaccaio lo salutò con affetto. Açelya colse l’occasione per fare lo stesso. Gli diede il buongiorno accompagnandolo con un sorriso senza occhi, e lo guardò come se, piuttosto che un saluto, si aspettasse un grazie. Valerio si affrettò a rispondere, convinto si trattasse di buona educazione, di vicinato, di abitudini perdute. Come se si potessero davvero chiedere decine di migliaia di euro a una persona, e pretendere che questa non si senta immediatamente proprietaria di qualcosa.

Scoprì che quando si svegliava, alle 7:45, e metteva su il caffè che i suoi genitori ancora le mandavano da Bodrum, Valerio già stava uscendo di casa. Che quando apriva il PC per dare la prima lezione d’inglese, lui era rientrato e trascorreva l’ora successiva alla finestra, rivolgendo la parola a chi passava. Che lei pranzava alle 13:00, lui alle 12:20. Che nessuno, neanche un figlio, gli andava a far visita, e che in questo erano uguali. Al pomeriggio lo vedeva in poltrona, seduto a guardare la televisione, finché non calava il sole e a illuminarlo restava la luce bianca e blu di qualche programma generalista. Quando lei terminava le lezioni, chiudeva il portatile e sceglieva un vinile da ascoltare. Dal sabato in cui, con meraviglia, l’aveva trovato ai mercatini dell’usato, spesso il disco prescelto era una vecchia incisione di suo padre, che era stato una meteora folk nell’Anatolia centrale alla fine degli anni ‘80. Accompagnata dalla voce familiare faceva qualche esercizio di stretching. Prima delle 20:30 cenavano entrambi. E poi, a sera inoltrata, lo osservava prepararsi per andare a letto. Dopodiché non sapeva più che fare.

Queste cose le venne a sapere quasi senza volerlo: la sua casa era così piccola, infatti, che poteva osservare Valerio da qualsiasi posizione. Smetteva di spiarlo solo quando si voltava, dando le spalle alla finestra sopra il cucinino. In quel caso ciò che si trovava davanti erano un letto soppalcato e un soffitto basso; un mobilio reso coerente solo dall’abitudine; una macchia di umidità nell’angolo sopra l’ingresso, che sul bianco della parete pareva un’opera d’arte contemporanea dai significati insospettabili.

E poi, una sera, lui tirò tutte le tende e non le riaprì più.

Da quando si era trasferita, Açelya aveva un pensiero ricorrente: rientrando in città in auto osservava come i campi lasciassero man mano spazio ai capannoni, agli stabilimenti industriali, all’hinterland, e poi agli incroci su più livelli delle tangenziali, alle sedi luminose delle grandi aziende, e agli uomini che parlavano di lavoro fino a sera. All’edilizia popolare e alle periferie e ai quartieri che diventavano via via più antichi, meno tetri, più costosi. Si domandava, dal posto di guida della sua utilitaria, che sensazione si dovesse provare a far ritorno nella metropoli sapendo di averle finalmente sottratto un po’ di spazio – anche piccolo, anche minuscolo – e però suo: con un tasso che resterà fisso negli anni e una chiave che aprirà sempre la stessa porta.

Secondo una qualche accezione a fondo pagina del termine, lei amava quella rete urbana in cui spontaneamente aveva deciso di incastrarsi otto anni prima, eppure, negli ultimi tempi, essa ricambiava pretendendo sempre qualcosa – e quando Açelya si decideva a dargliela – pretendeva di più.

Una mattina, poco dopo le sette, si mise le scarpe, indossò la giacca sopra il pigiama e scese in strada. La città era ancora muta, e una luce blu segnava un’indecisione diffusa tra il giorno e la notte. Cercò di sembrare distratta mentre lui usciva dal portone, le mani infilate in un cappotto nero, lungo, di pregevole fattura.

Açelya gli andò dietro mantenendo una distanza prudente, come aveva visto fare nei film. Passarono davanti al bar, ma senza entrare. Superarono il giornalaio e la lavanderia cinese. Valerio non sembrava averla vista, pensò lei, finché il giro non cominciò a sembrarle circolare. All’incrocio tra due vie, sulle strisce pedonali, lui si fermò all’improvviso.

“Un caffè?” chiese, senza voltarsi. “Se hai tempo.”

Nella sua voce non c’era né diffidenza né accusa. Açelya rimase immobile per qualche secondo, sorpresa, poiché pensava di aver fatto un buon lavoro. Quindi si decise a seguirlo.

Nel suo appartamento, la luce filtrava appena dalle tende chiuse. Su una mensola: lettere e disegni colorati dei nipoti, sostanzialmente un altare a sé stesso.

Valerio mise su la moka.

“Voi giovani ora vi vestite così?” le chiese.

“Così come?”

Solo allora Açelya si ricordò di indossare un pigiama di Hello Kitty.

Sedettero uno di fronte all’altra, i volti sfocati dal fumo delle tazzine, bevendo muti. Poi Valerio si versò un altro dito di caffè, senza chiederle se ne volesse ancora. Rompendo la tensione superficiale del silenzio, disse: “È difficile far passare le mattine.”

Lei annuì come se lo capisse. Lo capiva.

“Io non sono brava con le mattine. Ci metto sempre un po’ a trovare un motivo per scendere dal letto.”

“E qual era il motivo oggi?”

“Oggi?” sentì di arrossire. “Oggi lo devo ancora trovare.”

“Comunque io ho smesso di cercare motivi,” proseguì l’uomo. “Mi alzo lo stesso.”

Si guardarono per un istante, senza sapere a chi toccasse parlare.

“Abiti qui vicino?” chiese sempre lui.

“Di fronte.” Scelse la verità. Indicò le tende.

L’uomo annuì.

“C’è un buon pane qui all’angolo,” disse poi. “Se non esco adesso, finirà.”

Lei si alzò senza che lui dovesse chiederglielo.

“Buona spesa,” aggiunse. Seria, come se fosse una questione importante.

Valerio la accompagnò alla porta.

Le mormorò: “Ci si vede.”

Fece ritorno una notte con un uomo di cui avrebbe dimenticato il nome. A luci spente salirono le scale in miniatura del soppalco, rischiando quasi di sopprimere la voglia. Ma lassù cominciarono a toccarsi, stringersi, baciarsi. Avvertirono quella sensazione di fortuna che si prova quando la realtà coincide col desiderio più profondo. Sesso: niente più e niente meno.

Sopra di lui, Açelya contrasse i muscoli della schiena e per la foga gettò la testa all’indietro. Batté contro il soffitto. Urlò di dolore e si sganciò dall’uomo, rotolando su un lato e premendosi la nuca. Lui, strappato di colpo all’ambito del piacere, si offrì di aiutarla, ma lei lo scansò. E allora lui lasciò stare il suo dolore, ma non lei: è opportuno dire che meno di dieci minuti dopo le era di nuovo sopra, e dentro. Mentre la abbracciava – o la usava per tenersi legato alla realtà, come si fa in questi casi – lo sguardo di Açelya superava le sue spalle e i suoi capelli per raggiungere il soffitto che l’aveva colpita. Continuava a fissare la parete bianca come a dimostrarle che, sebbene non fosse così grande da contenere due corpi, in quell’appartamento si potesse comunque essere liberi.

Quando finirono, restarono a letto e lui fu carino. Ci provò a chiederle cos’avesse. Ma quello che contava, in quel momento, era ciò che non aveva. Allora lui mollò la presa e poco dopo si addormentò. Lei ne approfittò per andare a farsi un bidet.

Rumori esterni attirarono la sua attenzione mentre si strofinava. Tornò in cucina e si sporse a guardare fuori. Nella via deserta, illuminata come un interrogatorio, una figura incappucciata stava cercando di forzare la finestra di Valerio. La luce all’interno era spenta.

La mano di Açelya andò istintivamente al telefono, ma non ne fece nulla. Piegandosi in avanti, per un attimo il vetro si fece specchio, e lei si trovò faccia a faccia col proprio riflesso. Quello che vide non le piacque: una donna calma, in contemplazione. E una mano ancora ferma sul display. Sentì una fitta alla testa lì dove aveva battuto. Guardò in alto: il suo uomo senza nome continuava a dormire.

Il ladro si issò sul davanzale e lo scavalcò. In quel momento la luce in casa di Valerio si accese. Açelya ricordava un interruttore di fianco al letto. Davanti alla presenza di qualcuno, persino l’intruso arretrò sorpreso: le tende chiuse per tutti quei giorni dovevano averlo tratto in inganno. E poi vide l’anziano, in pigiama, andargli incontro come un cieco va incontro al mondo. Totale sacrificio. Eccolo il suo motivo per alzarsi dal letto oggi.

Lo sentì urlare: “Che vuoi? Non c’è niente per te qui!”

Quella frase la destò dal torpore: per te? E per qualcun altro, allora?

Afferrò il telefono, corse verso la porta, scese i quattro piani che la separavano dalla strada e uscì. Fece appena in tempo a scorgere il ladro dileguarsi oltre l’angolo. Allora si diresse verso la finestra ancora spalancata e, in preda all’adrenalina, si tirò su. Valerio era disteso a terra, una macchia di sangue che dalla fronte si ramificava sulla faccia. Respirava a fatica, paralizzato. La nuda proprietà: si investe anche su questo. Solo gli occhi rotearono mentre Açelya gli girava attorno, per capire cosa fare.

“Ragazza,” riuscì a rantolare lui, “non c’è bisogno che stai qui.”

“Cosa?” gli chiese lei. Si inginocchiò per ascoltare meglio.

“Non sei obbligata a farlo.”

“Lo so.”

Attorno a loro, la famiglia di Valerio li osservava dai portaritratti.

Lo portarono via i paramedici. Li aveva chiamati subito, o con ritardo: questo dipende dai punti di vista. Avvisò anche i figli. Prima che arrivassero, le spettarono cinque, forse dieci minuti di solitudine nella casa. Ciò che la colpì più di tutto fu il silenzio. Una casa senza proprietario è silenziosa, come in attesa essa stessa di una firma. Perlomeno finché un bip prolungato non l’avvisò che la lavatrice aveva terminato il suo lavaggio. Immobile, dentro quell’abitazione, si domandò quanto veloce potesse andare un’ambulanza. E mentre calcolava la risposta, si avvicinò alle finestre e spalancò le tende.

Restò lì, a farsi molestare dal freddo della notte.