Sentimenti sopravvalutati
recensione di Mario Marchetti
dal numero di Ottobre 2016
Simona Rondolini
LA STANZA DI AMELIA
pp. 252, € 17,50
Elliot, Roma 2016
“L’amore è un sentimento sopravvalutato” riflette la protagonista Amelia, verso la conclusione del romanzo (il suggerimento le viene in realtà dal disamato marito). Non è infatti l’unico mezzo per costruire ponti con gli altri, come capiremo con lo snodarsi della vicenda: e I costruttori di ponti era appunto il titolo originario della sua prima opera (finalista al Calvino 2013, poi pubblicato come Dovunque, eternamente da Elliot nel 2014: la recensione dell’Indice) che voleva alludere alla costruzione di relazioni tra gli esseri umani, bisogno insopprimibile per colmare il “buco” esistenziale che la vita scava dentro ciascuno di noi, ma conquista faticosa e dolorosissima, sempre a rischio di disfatta. Amelia e Rosalia/Lia, madre e figlia, ciascuna a suo modo, hanno investito tutto sull’amore: un amore avaro per Amelia, concentrato su un unico uomo (non il marito, naturalmente), un amore diffuso quello di Rosalia rivolto a molti uomini. Entrambe falliscono, irrogando infelicità a sé e agli altri. Amelia trova rifugio in un’ostentata bigotteria (intimamente assai poco sentita), Rosalia in un ostentato e disinvolto edonismo. Amelia e Rosalia non si amano, confliggono fin dall’origine di Lia nel ventre materno (“Dopo averlo sopportato mese dopo mese, finalmente l’ho spinto fuori. Non voleva uscire… Era una bambina”), e qui ritorna un tema caro all’autrice, già toccato in Dovunque, eternamente, ma declinato in maniera diversa: l’arcaico conflitto madre-figlia (che, ai giorni nostri, peraltro, spesso si capovolge in fusione).
Amelia e Rosalia/Lia (Lia è il nome scelto dalla madre al battesimo, Rosalia è il nome che si sceglie la figlia adolescente: “era convinta che sua madre l’avesse preso da una lagnosa canzone apposta per condannarla a essere ignorata dagli uomini”) sono personaggi che si imprimono nella mente, eccellentemente sviluppati dall’autrice, forse sondato più a fondo quello di Amelia, ricco di umane contraddizioni, alla superficie catafratto e scostante (sia con i familiari sia con i lettori). Ma anche assai bello nel suo ingenuo cinismo quello di Rosalia che cerca in sempre nuovi uomini quell’ubi consistam esistenziale che gli è stato rifiutato fin dalla gestazione. Sempre dissacrante, e spesso giustamente, Rosalia ricorda la Modesta di Goliarda Sapienza. Sempre con la valigia rossa − in basso nella splendida copertina in stile tipicamente Elliot la cui carta da parati, nella parte alta, allude alla misteriosa stanza di Amelia ‒ in mano, pronta per nuove avventure. Ma Rosalia sa anche prendersi cura degli altri, purché non della famiglia, col suo appassionato impegno di infermiera. Le figure maschili rispetto a quelle femminili (cui si possono aggiungere Ida, la proterva animatrice del gruppo di preghiera in cui si rintana Amelia e quello di Nina, la gioiosa e semplice di spirito sorella di Amelia) risultano più di sfondo.
Fanno da necessaria cornice, completano la trama, per così dire: l’uomo amato da Amelia, Ettore; suo marito Franco; e anche lo stesso Tommaso (il figlio avuto da Rosalia l’anno dopo la maturità, lasciato alle cure di un’anaffettiva Amelia) che pur gioca una parte rilevante nel romanzo. L’uomo o è sostanzialmente assente (come Ettore, in fondo) o si considera usufruttuario ad libitum del corpo della donna (come Franco, l’ingegnere, che sinistramente si impone come marito a una giovane Amelia, piazzandole la mano tra le gambe, con sghemba allusione alla sua dileguata verginità… e quindi che non faccia storie) o, per converso, rilutta al ruolo virile (come Tommaso, nel suo ostinato autismo, o come Leonardo, il padrone gay del ristorante dove Tommaso lavora come straordinario pasticcere). Amelia riscatterà la sua avarizia affettiva (ma, attenzione, anche lei riversa energie positive fuori della famiglia, sui piccoli ai quali insegna) scrivendo, nel suo privato penetrale – la stanza di Amelia, appunto −, un diario nel quale cerca di mettersi a nudo, diario che farà da ponte, dopo la sua morte, con la figlia e il nipote, i quali, poi, daranno vita a una anomala costellazione affettiva, insieme a Leonardo, al suo compagno e alla sua protetta, la bizzarra Resi. Dove le famiglie tradizionali falliscono (anche se si credono protette da una sorta di immunità: l’“immunità familiare”, secondo l’icastica definizione di Tommaso – o dell’autrice?), nuove forme si originano e paiono poterle sostituire. E in questa nuova “comunità”, Rosalia riassumerà il nome di Lia, simbolo di una riconciliazione avvenuta.
Oltre a questo, nel denso romanzo di Rondolini c’è molto altro: un gretto quadro di provincia contadino e urbano persistentemente ipocrita, un affresco di religiosità santimoniosa e, nel suo rovescio, aggressiva, complicate vicende familiari con adulteri e figli del peccato, usando un’espressione ancora in voga nei fotoromanzeschi anni cinquanta e sessanta (questi ultimi, ancora tali in provincia) nei quali si svolgono gli antefatti della vicenda, un affaccio anche nel mondo della pasticceria, un’adolescenza anni ottanta, un interesse molto attuale (sick literature o bioletteratura) per il corpo, il disagio mentale e la malattia (Resi è affetta da un angioma). La lingua è sempre accurata, la costruzione è originale e tenuta perfettamente sotto controllo, con i diversi punti di vista di Amelia, Rosalia e Tommaso, che si alternano geometricamente e con grana della voce diversa, accumulando sempre nuovi particolari, in una mise en abyme che ci fa intravedere sempre cangianti fondali. Rondolini, con questo romanzo, si conferma, a un tempo, narratrice e scrittrice.
“Forse pure il coraggio è sopravvalutato”, possiamo concludere con Amelia: a lei per scrivere il salvifico diario è bastata l’ostinazione. Quell’ostinazione che salverà anche Rosalia/Lia e Tommaso. Quell’ostinazione che fa scrivere Rondolini e che continua a farci leggere in questo universo disturbato dal rumore penetrante della rete.
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