Sergio Sessini (1959) – L’altro
Da piccolo pensavo che tutti fossero come me. Ne parlavo a mio padre, che non capiva e diceva “Sono sogni, passeranno.” I miei discussero per qualche tempo se fosse il caso di consultare uno psicologo, poi decisero di no.
Mi chiamo Gregorio. L’altro non so se abbia un nome. Forse ha la mia età, o è anche più vecchio – nei miei ricordi c’è sempre stato. La prima memoria precisa che ho di lui (ma le parole non aiutano, dire lui è sbagliato: si tratta sempre di me, o di noi) è una camminata in una fitta giungla. Sole che balena tra le foglie, sudore, insetti, fatica, salita fangosa di terra rossa e umida che si disfa in rigagnoli sotto i miei piedi nudi.
Avrò avuto due anni, ancora non sapevo cosa fosse una giungla. La riconobbi molto dopo, in un libro illustrato di avventure. L’intrico di alberi, le foglie dei banani, gli uccelli, era tutto lì, anche se alcuni dettagli nelle illustrazioni erano sbagliati.
A volte uno di noi appare mentre l’altro dorme. Più spesso esistiamo insieme, come due pellicole sovrapposte, due radio accese su canali diversi. È faticoso. Mentre scrivo queste righe, nel piccolo studio scricchiolante e male illuminato ricoperto di legno scuro, sono anche su un altipiano assolato: sto spennando un uccello dalle piume colorate, che ho cacciato e metterò ad arrostire sulle ceneri del fuoco che ho davanti. Sono incantato dal blu cobalto, dal giallo ocra e turchese delle penne, appoggio ordinatamente le più belle su una roccia piatta.
Si può credere che io abbia due vite, mentre nella mia costante vertigine non ne ho nessuna. Cerco riposo, fuggo da entrambe. Sono venuto ad Amsterdam appena compiuti vent’anni: qui è facile esistere senza che mi si noti, più che nell’isola del sud dove tutti esponevano la propria vita allo sguardo comune come un panno steso. Ho un laboratorio di vetraio, faccio specchi che monto su cornici antiche. Passo il tempo libero camminando, gli occhi chini sul rimescolio quieto dei canali; scivolo inosservato come i rami d’acqua che si estendono ovunque. Ogni tanto entro in un bar e prendo un jenever. Il vicino al bancone mi sorride, fa una battuta veloce sul tempo, sullo sport e un, due, tre, mi dimentica.
Sono anche un cacciatore. Mi sposto in cerca di cibo tra la boscaglia tropicale dell’altipiano e i canneti di uno stagno dove raccolgo granchi e pesco con la fiocina.
Tutto avviene simultaneamente. Ho scelto un mestiere solitario e silenzioso perché concentrarmi mi è difficile. Spesso devo sedermi, esausto, a districare colori, odori, pensieri, separare la palude dal canale, la corsa di biciclette da quella di maiali selvatici.
Ho incontrato Saskia il giorno che ho deciso di fare qualcosa che non faccio mai. Ho riempito lo zaino di panini e sono andato in bici alle dune, davanti a un mare grigio, sotto un cielo agitato di nuvole basse, così diverso dalle spiagge roventi dove sono nato.
Ero già stanco all’arrivo, non sono abituato a pedalare. Eppure ho camminato a lungo, accompagnato dal rumore del mare: onde tutte uguali quando fanno da sfondo, diverse se ci si perde nei dettagli del loro schiumare. Nate lontano, non come il rimbalzo breve dell’acqua in un canale. Nessuno ha visto la loro origine, comprende il perché del loro carezzevole effetto di nepente.
Ho corso, fino a dovermi gettare a terra coi polmoni che implorano aria, avidi e stremati come avevo vissuto soltanto attraverso l’altro – che in quel momento dormiva un sonno senza sogni; solo di tanto in tanto si svegliava, inquieto per l’odore di predatori non lontani.
Ho saltato, lanciandomi dalle dune e lasciandomi rotolare come un bambino. Ho saltato una volta di troppo: cadendo su una radice mi si è storta una caviglia e sono crollato senza fiato, gli occhi serrati per il dolore.
Quando li ho riaperti, Saskia era sopra di me. Una ragazza sconosciuta, gli occhi color dell’acqua, che mi toglie la scarpa e massaggia la caviglia che già si gonfiava. Senza parlare, solo sorridendo con quelle labbra carnose che non ho mai visto chiuse, le labbra di un bambino che si meraviglia.
Mi ha messo in bocca una pillola, “Per il dolore.” Dopo il massaggio, piano piano mi ha sorretto fino alla sua auto, che per fortuna aveva un portabiciclette. Adagiato sul sedile, mi sentivo assopire: doveva avermi dato qualcosa di forte.
“Strano”, mi ha detto allacciandomi la cintura di sicurezza. “Da te non mi sento minacciata.”
“E perché mai dovresti”, sono riuscito a dire, la voce impastata.
“Sempre sono terrorizzata”, mi è sembrato dicesse. Ma non sono sicuro, perché già scivolavo nel sonno.
Chiusi gli occhi, ero l’altro: avevo tagliato dei rami, ne appuntivo le estremità, li piantavo e li legavo formando una palizzata. Piazzavo trappole. Di tanto in tanto annusavo l’aria. L’odore dei predatori, grandi felini, si era fatto forte.
Mi sono svegliato che eravamo già in città, Saskia mi scuoteva: “Dove abiti?”
Il dolore era sceso, ormai camminavo da solo, ma mi ha sorretto fin dentro, il mio braccio sulla sua spalla. L’ho lasciata esplorare il minuscolo laboratorio, ho raccontato come lavoro gli specchi, come invecchio il legno delle cornici. Siamo rimasti a lungo, fuori si è fatto buio. Le ho regalato uno specchio, quello che lei guardava di più, un ovale fine ‘800 che avevo restaurato, quasi troppo piccolo perché ci possa entrare il riflesso di un volto intero. Al momento di andarsene le ho chiesto se potessimo rivederci. Saskia, già sulla porta, si è girata a mostrare quella bocca sempre socchiusa e ha annuito. Mi sono avvicinato zoppicando per baciarla e lei non si è ritratta. Siamo rimasti appoggiati alla porta, immersi in un contatto silenzioso di labbra morbide, finché il suo telefono non ha suonato e Saskia, con un sobbalzo, si è scostata. Guardando lo schermo ha sussurrato: “Devo andare.”
Nello stesso momento l’altro si è svegliato da un sonno agitato, sudato dell’afa della notte. L’odore pungente di felini era sempre più intenso. Erano vicini.
L’indomani mi sono svegliato pensando: “Non ho il suo numero.” Nemmeno Saskia aveva il mio. Rivedersi o meno dipendeva soltanto da lei, che sapeva dove sto.
E lei venne. Qualche giorno dopo bussava alla vetrina, con un sorriso e una bottiglia. Prese a farlo ogni tanto, senza preavviso, quando voleva lei. Parlavamo e parlavamo, ma diceva poco di sé, quasi soltanto confusi episodi d’infanzia, ricordi oppressi come i miei. Non mi ha mai detto del suo lavoro, né il suo cognome.
La terza volta che venne a trovarmi non mi baciò. Parlava, sorrideva, ma a distanza. Ricordo i suoi occhi annuvolati. Mi avvicinavo per abbracciarla e lei si scostava come per una scossa elettrica. Uscimmo a bere jenever e Saskia tornò a toccarmi leggera un braccio, si appoggiava sospirando: “Sono felice. Non sono mai stata così bene. Grazie, Gregorio.” Un minuto dopo mi ignorava, come fosse da sola. Cominciò a flirtare col barista. Alla fine lasciò perdere e tornò a me. Le presi la mano e lei non la tolse, ma era così in tensione da farmi sentire un intruso, un molestatore. La guardavo senza capire.
“Mi sono sbagliata”, mi disse semplicemente.
Poi, dopo un silenzio, scuotendo la testa con gli occhi fissi altrove:
“A volte mi piaci, a volte no.”
Mi raccontò di essere stata diagnosticata schizofrenica, con personalità multiple. Compresi come mai mi desse l’impressione di un cavallo selvatico, sempre allerta e pronto a scartare. Perché si sentisse minacciata da tutti ma non da me – io come lei senza un’identità solida, entrambi vuoti come case disabitate. Compresi che è stato il peso delle sue molte esistenze a farmi innamorare (e ora, forse, l’invidia per il suo oblio. Lei non è mai più vite insieme; ogni sua persona non sa delle altre).
Non posso dire di aver conosciuto diversi individui in lei, ma ho sperimentato lo spettro dei suoi atteggiamenti: dall’amore, al disprezzo, fino al più doloroso di tutti, l’affetto. Ciò che l’aveva incuriosita, acquietata, il vuoto in me che faceva sì che mi volesse bene e anche, a suo modo, mi amasse, era la stessa cosa che le impediva di essere attratta.
Com’era naturale, ne divenni ossessionato. Volevo un’amante, non un’amica. Saskia mi aveva risvegliato e ora non potevo più ritornare al mio cantuccio tranquillo come un cagnolino benvoluto. Presi a desiderarla come non mi era mai successo, volevo passare tutto il tempo con lei. Chiesi il suo numero, l’indirizzo, che non mi diede. Settimana dopo settimana mi ero fatto suo schiavo, mi nutrivo dei momenti che potevo rubarle. Lei amministrava la sua presenza: spesso negandosi, ogni tanto concedendosi – anche per lei era difficile rinunciare ad essere, per una volta, adorata.
Il me senza nome si muove leggero tra le canne, quasi privo di identità. (Ora, mentre scrivo, io sono io e lui è lui. Tra un istante potrei essere lui, e il vetraio italiano che monta una cornice di legno dorato davanti allo sciabordio tranquillo dell’Herengracht sarà la figura ignota sullo sfondo).
Io, Gregorio, sono un individuo appesantito da una storia personale. Lui, un flusso di semplici azioni in risposta a ciò che accade. L’altro vive di momento in momento con freschezza animale, io sono un’ombra nostalgica. A lui è toccato l’albero della vita, a me quello della conoscenza del bene e del male. Mi è superiore in tutto: nel corpo agile e robusto, nella serenità con cui risponde agli eventi.
Se solo sapessi affrontare il rifiuto di Saskia con la sua grazia, ho pensato. Così un mese fa, dopo aver supplicato e insistito, ho preso una decisione. Non posso averti, non voglio vederti, le ho detto.
Per un po’ di tempo non s’è vista. Ieri, però, è tornata a bussare alla vetrina.
Era cambiata. Mi guardava di nuovo con interesse. Il mio gesto netto, ho pensato, mi rende di nuovo un uomo ai suoi occhi.
Avevamo poco da dirci. Mi ha preso per mano e portato di sopra, dove non era mai stata. Mi ha spogliato, abbiamo iniziato a baciarci. Io tremavo, un po’ per l’incredulità per la mia fortuna, un po’ per paura. Ero soprattutto confuso dalle visioni dell’altro. Mentre la carezzavo incerto, un puma o un giaguaro saltava dal folto della notte e mi faceva rotolare dal mio giaciglio. Ero riuscito a tenere saldo nella mano il pugnale che tengo sempre accanto quando dormo, e a conficcarglielo nella bocca aperta, nel palato. Si era scostato con un grugnito e balzava di nuovo nel buio, a morire da qualche parte. Io perdevo sangue da una ferita al fianco, mi sentivo mancare.
“Mi vedi?”, ha chiesto Saskia, che avvertiva le interferenze che mi tenevano altrove. “Sono qui!”
Maledicevo la condizione che mi costringeva a stare lì con metà sola del mio essere. Continuammo a fare l’amore ma, lo vedevo, non le piaceva. Terminai con un gemito dove piacere, angoscia, la ferita al fianco e Il sapore di un esame fallito, il senso di averla persa irrimediabilmente, gridavano insieme.
A quel punto è successo qualcosa. Ho udito un respiro affannoso. Ho alzato gli occhi e l’altro, sanguinante, stava qui nella stanza, accoccolato nella poltrona davanti a me. Un momento dopo guardavo coi suoi occhi: vidi Gregorio sul letto, debole, nudo, vinto, la testa appoggiata al ventre di Saskia che immobile fissava il soffitto. Fragile, senza speranza, senza importanza.
Infine vidi di nuovo con gli occhi di Gregorio, e osservai il gesto inspiegabile dell’altro: mi fissava e batteva l’elsa del pugnale sul cuore, lentamente, ripetutamente. Soltanto più tardi mi è venuto in mente che mi stava chiedendo di ucciderlo. Di farmi uno, per poter essere con Saskia.
Ora è quasi mattino. Saskia dorme nel mio letto. Non tornerà, lo so.
Penso alla morte. Mi chiedo se io e il senza nome siamo destinati a spegnerci insieme. Oppure se, andato uno, l’altro conoscerà l’aldilà pur continuando a respirare, a mangiare, a serrare gli occhi davanti al sole del pomeriggio – se saprà senza morire se c’è un Dio. Se saprà se si tratta di una divinità unica, o se scoprirà che l’idea di individuo è un’illusione. Guardo i ghirigori d’acqua del canale riflessi sulle travi del soffitto e penso di essere io l’altro, l’ombra, il sacrificabile.