COMUNICATO DELLA GIURIA
La Giuria decide di assegnare il Premio a L’attività letteraria a Gibilterra nel secolo XXI di Gennaro Serio per il coraggioso esperimento metaletterario condotto nel testo con lingua poliedrica, sulla scia dei modelli cosmopoliti di Vila-Matas e Bolaño. Un giallo sofisticato dal gusto ironico e parodistico che vede i protagonisti in viaggio per l’Europa dei luoghi di culto della scrittura terminando nella Gibilterra dell’immortale Molly Bloom.
Una menzione speciale della Giuria va a L’ultima testimone di Cristina Gregorin per la capacità di affrontare in modo obiettivo ed empatico la scabrosa pagina della storia italiana che ha per protagoniste Trieste e l’Istria tra guerra e dopoguerra tra conflitti etnici e politici in un complesso quadro internazionale. L’agire ambiguo dei personaggi gioca a favore della trama e della suspense ponendo in risalto il tema della moralità dell’azione.
Una seconda menzione speciale della Giuria va a Dieci storie quasi vere di Daniela Gambaro, una raccolta di racconti che ha come filo rosso il femminile nei suoi aspetti di oscurità, di mancanza, di desiderio, particolarmente incentrata sul tema della maternità variamente declinato e delineato. Punto di forza del testo una scrittura consapevole, attenta al dettaglio e rivelativa di un buon controllo sui meccanismi emotivi e narrativi.
La Giuria
Peppe Fiore, Giuseppe Lupo, Rossella Milone, Davide Orecchio, Sandra Petrignani
L’attività letteraria a Gibilterra nel secolo XXI di Gennaro Serio
Il narratore si confessa
Se fossi Pepe Carvalho, questo resoconto assumerebbe i contorni di un romanzo giallo velato di malinconia per il mondo di merda che là fuori incanutisce indifferente: tanto malinconico da far dimenticare la trama gialla ma non abbastanza per seccare il lettore non incline ai facili languori (un lettore del genere è auspicabilmente alla ricerca di una trama gialla, pure se non alla spasmodica ricerca di scosse elettriche che lo facciano sobbalzare dal divano). Avrei una puttana luetica che si lagna sulle mie ginocchia e un confidente smandrappato che non mi dà un’imbeccata buona nemmeno se lo scanno (e allora perché me lo tengo come confidente? Così, perché sono un sentimentale). Me ne andrei girando all’alba come uno scimunito, le mani in tasca, e risolverei i miei casi per opera e virtù dello spirito santo. Barcellona sarebbe una specie di buco nero che puzza di pipì, piena di drogati e morti di fame, un ricovero per dementi pronti ad ammazzare il primo cristiano che capita per i motivi più intimi e teorici, come se fossero tutti Raskoľnikov (ma l’aria di mare da queste parti rammollisce tutti quelli che possono permettersi un tetto e un pasto caldo, e i morti ammazzati li fa solo la fame, o la droga, che poi è la stessa cosa).
Io, per me, sarei qualcosa di avvicinabile a un invasato che reprime i propri istinti antisociali: brucerei nel mio camino i libri che ho letto, e altre amenità del genere. Certo, se questo dovesse essere per me l’unico modo di evitare di dare fuoco ai passanti o aggredire le vecchie casalinghe di Vallvidrera, accetterei un approccio terapeutico siffatto, ammettendo che non esistano gli antipsicotici (in un mondo in cui brucio i libri che ho letto tutto può essere, e non per la bizzarria di bruciarli, piuttosto per quella di leggerli: io non leggo libri). Mi dicono che forse Carvalho brucia libri per ragioni psicoanalitiche profonde. Mia sorella dice che lo fa perché in gioventù era comunista e i comunisti desiderano segretamente l’autodistruzione. Certo, dovrei possedere un camino. Nel mio quartiere nessuno ha un camino.
Certo, potrei friggere i libri in padella, con l’olio di semi. Una bomba ecologica, claro, ma ricordiamoci che servirebbe ad evitare inutili spargimenti di sangue. Oltretutto terrei molto alle mie padelle perché sarei un vero buongustaio, cuoco, assaggiatore, se fossi Carvalho. Ora: la figura dello psicopatico-gourmet mi sembra di stringente attualità, e qui c’è la grandezza dello scrittore che precorre i tempi. Perché in effetti, quando dico Pepe, penso a Don Manuel Vázquez Montalbán. Di Don Manuel non ho mai letto una riga ma l’ho conosciuto a Los Caracoles, una sera che si rimpinzava come un demonio in compagnia di un gruppo di ambigui bestemmiatori. Il ristorante non era la trappola per fighetti che è diventata oggi, e due tavoli avanti a me, accanto a quello di Don Manuel, c’era uno zingaro che divorava un pollo intero con le mani. Lo scrittore mi fu subito simpatico perché si interessò a me e volle sapere che lavoro facevo e fu entusiasta della risposta e mi disse di chiamarlo Manuel, così adesso che scrivo questo resoconto lo chiamo Don Manuel ma non ho mai letto niente di costui e dubito che lo farò in futuro. Però questo caso così anomalo sarebbe piaciuto a Don Manuel. Oh, sì, eccome se lo avrebbe incuriosito: il caso Vila-Matas.
L’ultima testimone di Cristina Gregorin
Una voce dal passato
In una giornata di pioggia di tardo novembre, mentre attraversa le strisce pedonali tenendo caparbiamente testa al vento e all’acqua con l’ombrello, Francesca non si accorge della macchina che si sta avvicinando. Solo all’ultimo avverte il cofano rosso e fa uno scatto in avanti. La macchina la schiva virando un poco a sinistra, sollevando spruzzi d’acqua che le bagnano l’impermeabile e le inzuppano i pantaloni dalle ginocchia fino ai piedi…
Entrata nella saletta del reparto di ostetricia, Francesca indossa il camice e prende un fon per asciugare i pantaloni. E proprio in quel momento riceve la telefonata di quella donna, Anita Tommasi, un nome che arriva da lontano, e che dopo qualche sospiro e qualche scusa per averla disturbata a quell’ora del mattino, comincia a raccontare di suo padre, Bruno Tommasi, morto qualche giorno prima. Lei replica secca, con i pantaloni bagnati in mano e lo sguardo sul foglio delle visite in programma, che non ricorda di averlo conosciuto. La donna continua, indifferente al tono di Francesca, dicendo che suo padre, invece, si ricordava molto bene lei, visto che l’ultima parola pronunciata prima di morire era stata proprio il suo nome.
“Sono molti anni che non vivo più a Trieste. Dove avrei dovuto conoscere suo padre?” chiede spazientita.
“Sono io che lo chiedo a lei. È morto dicendo che solo Francesca Molin poteva chiarire la morte di un certo Vasco Cekic. Mio padre aveva novantasette anni. Cekic, un suo amico di gioventù, è morto nel 1976. A me pare che lei sia la sola a sapere quel che voleva dire”.
Francesca vede l’infermiera farle cenno che l’aspettano in reparto e risponde veloce che deve esserci un errore, che a quell’epoca aveva solo dodici anni e se anche avesse conosciuto suo padre Bruno o l’amico Vasco, ormai non ricorda né l’uno né l’altro. Deve andare, è sul lavoro e non può trattenersi oltre.
Anita Tommasi però non ha finito.
“Sa che mio padre Bruno e sua nonna Alba erano stati buoni amici? Si conoscevano già quando erano in Istria, prima di arrivare a Trieste dopo la guerra. È un peccato che mio padre non mi abbia mai raccontato dei suoi primi anni in città, magari erano nello stesso campo profughi. Pensavo di fare visita a sua nonna, di chiederle di parlarmi di lui”.
“E quindi?” chiede Francesca senza aggiungere commenti sui legami tra il padre di Anita e sua nonna Alba.
“Forse sarebbe opportuno, considerata la sua età, se fosse presente anche lei, dottoressa Molin”…
Rimasta sola, appallottola il foglio di carta. È a credito di almeno venti giorni di ferie e il primario non si opporrà di certo se ne prende tre o quattro adesso. Dovrà perdere un paio di lezioni di yoga, l’albero della sua vita, come lo chiama lei. Ma non può lasciare sua nonna da sola con quella strega, chissà che cosa le può chiedere. Potrebbe risvegliarle ricordi che fanno male e sua nonna ha novantasette anni, a quell’età ogni emozione è una scommessa con la vita. Il viso le diventa rosso e caldo, si alza di scatto. Che nessuno tocchi Alba, l’unica persona che l’ha amata senza volere nulla in cambio.
Dieci storie quasi vere di Daniela Gambaro
Giochi proibiti nel giavasco
Tua madre ti ha portato in centro a comprare le scarpe nuove e ti ha ripetuto più e più volte di accertarti che la misura sia quella giusta. Quando tu e tua madre siete arrivati a casa, tu dici: “Forse l’unghia del ditone mi batte in punta”, ti togli le scarpe nuove e corri a piedi nudi. Non fai caso alle pietre, ai sassi insidiosi, alla gramigna tagliente, pensi solo a correre (…) esci dal viottolo e ti infili nel giavasco: fresco, frusciante, gentile e sicuro come una fortezza. Ti fai strada nel fitto, all’interno, tra le sue mura verdi e premurose….
Nel giavasco, tra l’erba alta e le ortiche, una volta mi hai detto: “Mio padre ha i calendari con le donne nude. Sono bellissime. C’è uno che lecca la passera ad una tipa. E lei non ha i peli, neanche uno”. Ti ho detto che, se è per questo, nemmeno io ce li avevo ma la cosa non ti importava granché perché io ero la tua migliore amica.
“Lo vuoi vedere?” mi hai detto raggiante all’idea di condividere con me quel tesoro di famiglia.
Ci siamo infilati di nascosto nell’officina di tuo padre: odore di grasso e di gas di scarico, striature oleose sul cemento grezzo del pavimento, penombra e stracci bisunti dappertutto. A me questa foto non interessava per niente, anzi mi faceva un po’ paura, e tenevo gli occhi bassi per non incontrarla, studiando una crepa nel pavimento.
“Non c’è più,” mi hai detto sconcertato indicando il muro vuoto, e per tutto il pomeriggio eri mogio e deluso come chi non ha mantenuto una promessa.
“Pensi che anche i tuoi genitori o i miei lo facciano?” ti ho chiesto, pensando che riaprire l’argomento ti avrebbe tirato su il morale.
“Certo,” hai detto serio, “e anch’io voglio farlo quando ho la morosa”.
Se tua madre ti ha detto di non prendere la bicicletta di tuo fratello che è troppo grande per te e tu l’hai presa, è ovvio che la giornata prende un sapore interessante e clandestino. Facciamo su e giù nel parco del museo, sui vialetti lucidi di fango, e tu ti diverti a sgommarci sopra, in frenata. Io ti seguo ammirata, incapace di eguagliare le tue prodezze. Poi non so cosa sbagli, la ruota dietro ti parte di lato e tu rotoli sull’asfalto; quando ti alzi al posto delle ginocchia hai due nodi d’albero.
Nella vasca da bagno di casa mia, ti faccio zampillare l’acqua ossigenata dentro la ferita, e la vedo friggere nella carne fin contro l’osso, la schiuma frizza e diventa rossa, mentre tu urli e inventi sempre nuove divinità, un olimpo personale, semplice e diretto, che già mi strega. Dio schiuma, dio ossigeno, dio muoio, dio osso, dio basta.
(…) tu mi dici serio: “Senti, ci ho pensato. Da grande ti voglio sposare!” (…)
Poi però mi sono ricordata del calendario. Se diventavo tua moglie, avrei dovuto fare quello che faceva la tizia del calendario, tu eri stato chiaro e risoluto: alla morosa avresti fatto quello che il tizio del calendario faceva alla sua compagna senza peli. Ti avevo detto che anch’io non avevo peli laggiù, e può essere che questo ti avesse fatto riflettere sulla mia possibile candidatura al ruolo. Dio paura, dio amore, dio non posso, dio ho nove anni appena compiuti.
“Io no,” ti dico tirandomi su i pantaloncini.
“No cosa?” mi fai.
“Non ti voglio sposare”, ti dico e mi sento salva, leggera, euforica. Nemmeno ti aspetto, corro a cercare gli altri per giocare a alto da terra.