dal numero di giugno 2018
Quest’anno, quanto ai temi e al taglio dei nove testi finalisti, è affiorata con forza una tendenza che investe più in generale la recente narrativa italiana, e non solo (ne hanno parlato ultimamente, sulla “Stampa” e sul “Corriere”, Christian Raimo e Peppe Fiore). In estrema sintesi, possiamo parlare di una messa nell’angolo del realismo. Gli esordienti, in particolare i più giovani − ma anche qui non solo −, cercano vie oblique per narrare ed esprimersi, ed esprimere la loro visione del mondo. Passano attraverso i generi, soprattutto il distopico che permette loro di radicalizzare lo sguardo con maggior libertà, oppure attingono al fantastico, filone che in Italia ha un padre nobile proprio in Calvino, il nostro nume tutelare. O, ancora, riprendono l’inesauribile mito greco – anche in un’epoca apparentemente antiumanistica come la nostra − per parlare dell’oggi. O creano paesaggi mentali allucinati con la medesima funzione. Oppure ancora operano attraverso un uso spiazzante del linguaggio con un effetto di straniamento; o, infine, introducendo un granello di irrealtà in un oliato congegno realistico. La descrizione dei meccanismi sociali con i suoi personaggi indagati psicologicamente tipica del grande romanzo borghese otto-novecentesco appare fuori tempo massimo, forse perché complessa, ma soprattutto perché non se ne vede più un senso, né nel bene né nel male. Siamo giunti a uno iato, affrontabile solo, parrebbe, con i mezzi della docufiction. Ovviamente un realismo spicciolo esiste − basta guardare alle classifiche dei bestseller − ma non ci interessa. Altro tratto che colpisce nei nostri finalisti, come altrove peraltro, è la produzione di testi tramite altri testi, che siano letterari, filmici, serial televisivi, manga, graphic novel… Ci troviamo di fronte a un riuso di testi che li declina, piega, deforma in altri sensi, fornendo un punto di partenza collaudato e obbligando la realtà a fare un viaggio attraverso un preesistente immaginario umano. Argomenti molto interessanti che richiedono anch’essi un discorso a sé, ma che stanno alla base delle nostre scelte che come sempre non sono consolatorie né eminentemente commerciali. Scelte che affrontano tutte, sia pur in chiave diversa, nodi di rilievo.
E così, in finale, abbiamo due testi distopici. In Il grande vuoto (Adil Bellafqih) − nutrito di manga e di Black Mirror −, sul filo di un’avvincente e misteriosa storia alla Chandler, siamo proiettati nel dopo-Crollo, in un mondo completamente artificializzato in cui le persone si affidano ad avatar e a visioni aumentate della realtà ottenute grazie a un dispositivo che fa loro vedere, in luogo del diffuso grigiore, un mondo rutilante di luci, dove tutti sono in contatto con tutti in un web totalizzante dominato dalla pubblicità e dalla brama di apparire. In Omeocrazia (Maurizio Bonino e Valentina Drago) siamo invece immessi in un’utopia apparentemente felice che si sta consolidando (siamo al suo anno 18), dopo il distruttivo antropocene, sulla base di un severo equilibrio energetico. Tutto è sottoposto a questo principio, morte, amore, tempo libero, ma in questa funzionale razionalità appaiono delle crepe grazie al ruolo spiazzante del tango e di nebulosi ma persistenti ricordi del prima. In questo come nel testo precedente a svolgere da pietra d’inciampo è dunque l’irriducibilità della memoria. Ad essi si può affiancare, per differenziarsene, Talib (Bruno Tosatti) dove la distopia è sostituita dal fantastico, in una raffinata pirotecnia del meraviglioso sulle tracce di Borges e di Calvino, ma anche di Voltaire − e non senza incursioni in bacini più contemporanei − che, oltre a volerci semplicemente divertire, svolge una sommessa e amabile polemica contro il fanatismo a favore della tolleranza, o, meglio, a favore delle curiosità delle domande contro la supponenza della risposte. E non a caso il protagonista si chiama Talib.
Con Elena di Sparta (Loreta Minutilli), una penetrante riscrittura al femminile della vicenda della bellissima tra le belle, è il mito a permettere di bypassare il realismo e i proclami troppo espliciti. Qui assistiamo, nel racconto dell’ormai anziana Elena, al suo soggettivarsi superando la condizione di mero corpo cui era stata inchiodata dalla bellezza. Si parla di ieri ovviamente per alludere all’oggi. L’inverno di Giona (Filippo Tapparelli) ci porta in una dimensione mentale allucinata, in un paesaggio spoglio, algido, minuziosamente curato nei suoi realia e insieme puntualmente simbolico. Si tratta di un potente e struggente giallo analitico in cui la verità si sfrangia in tanti rivoli, toccando con acume e delicatezza i temi della colpa, del castigo, del lancinante bisogno di affetto e di stima. E ancora una volta le tracce mnestiche si rivelano irriducibili. In Sinfonia delle nuvole (Giulio Nardo), pittura ironica di un giovane drammaturgo in cerca di drammi (che non trovando nella sua esperienza cerca nei libretti d’opera), è il linguaggio volutamente artificioso a fare da diaframma con la realtà. Il nostro aspirante eroe romantico è a disagio col suo tempo ma non riesce a entrarvi in conflitto vivendo in una particolare cadenza della storia dell’Occidente dove lui come tanti altri giovani sono in fondo omini di lusso. È una mancanza senza nome, la sua, che sotto traccia innerva anche i due protagonisti di Trovami un modo semplice per uscirne (Nicola Nucci), riscrittura trivializzata di Aspettando Godot, un serrato dialogo mimetico tra due ventenni, che ingannano il tempo e insieme la noia di vite senza valore, chiusi in uno scantinato, separati dal mondo esterno, consumando musica, alcol e fumo. Qui la mancanza senza nome prende il nome di rivoluzione, un vagheggiamento in realtà nutrito dei valori egemoni del sistema mediatico. Il loro discorrere è un loop destinato a non avere fine né esito. Ci avviciniamo a un taglio realistico con La sartoria di via Chiatamone (Marinella Savino), storia calda e tradizionale di una straordinaria figura di donna che riuscirà a tenere la sua famiglia al riparo degli effetti più tragici della guerra in una Napoli tra fascismo e liberazione. Lavoro, cibo e bombardamenti sono i protagonisti di questo testo che rientra, sia pure con una sua originalità e con un lieve tocco favolistico, nel paradigma locale delineato da tanti scrittori e tanti film, per tutti ricordiamo Eduardo e la sua Napoli milionaria. E finiamo con Il Faraone (Riccardo Luraschi), ampio e coinvolgente romanzo – termine usato a ragion veduta − di notevole spessore che, pur tra qualche variante, potrebbe rientrare nel filone della docufiction. Qui l’autore è riuscito nella non facile impresa di dare vita narrativa a un personaggio palesemente modellato sul nostro Cavaliere nazionale. Ne esce un personaggio ambiguo, tra tratti di genialità e molte ombre, visto dal prisma del suo contabile di fiducia e, in controluce, uno squarcio di storia italiana che ci pareva di conoscere.
Gli stili e le scritture si distinguono per coerenza e capacità evocativa: si va dall’elegante prosa di Elena di Sparta al prezioso ricamo di Talib, dalle scritture precise e funzionali di Omeocrazia e del Grande vuoto al riuscito impasto di italiano e dialetto napoletano che caratterizza La sartoria di via Chiatamone. Abilmente mimetico, su un registro popolare, è poi il parlato di Trovami un modo semplice per uscirne come ingegnosamente antimimetica è, invece, la ricca e barocca maniera di Sinfonia delle nuvole, non priva di riusciti guizzi di lirismo. Particolarmente suggestivo e originale (almeno per buona parte del testo) è il rarefatto stile dell’Inverno di Giona come singolarmente ricca, sapiente e articolata è la lingua del Faraone capace di mescolare audaci ipotassi con registri bassi e di ricorrere con ottimi risultati sia a lessici colti che a lessici gergali.
Mario Marchetti