Nuovi sguardi sulla natura tra scienza e fiction
di Danilo Zagaria
Le piante, di recente, hanno iniziato a pensare. Non ci credete? Fate un giro in libreria. Nella sezione a loro dedicata (potrebbe chiamarsi, a seconda della libreria, “Piante”, “Giardinaggio” o, stranamente, “Hobby e Tempo Libero”), troverete volumi dai titoli inequivocabili. Per risparmiarvi la fatica – ma voi la ricerca sul campo fatela ugualmente – riporto qui alcuni dei più curiosi ed esplicativi. Verde brillante. Sensibilità e intelligenza del mondo vegetale di Stefano Mancuso e Alessandra Viola (Giunti, 2015); Flower Power. Le piante e i loro diritti, sempre di Alessandra Viola (Einaudi, 2020); Così parlò la pianta. Un viaggio straordinario tra scoperte scientifiche e incontri personali con le piante di Monica Gagliano (nottetempo, 2022); La saggezza degli alberi di Peter Wohlleben (Garzanti, 2017), L’albero madre. Alla scoperta del respiro e dell’intelligenza della foresta di Suzanne Simard (Mondadori, 2023), Planta Sapiens. Perché il mondo vegetale ci assomiglia più di quanto crediamo di Paco Calvo (il Saggiatore, 2022). A giudicare da questa infilata di titoli, non soltanto alberi, fiori e piante pensano, ma sembrano essere soggetti a tutti gli effetti, dotati di intelligenza e addirittura di parola.
Sembra quindi che, da qualche anno a questa parte, abbiamo iniziato a prestare ascolto alle piante, a vederle davvero. Non solo, questa nuova consapevolezza umana sull’altro vegetale ha pure un’impronta scientifica. Per indagare in che modo le piante rispondono agli stimoli, è stata forgiata addirittura una nuova disciplina: la “neurobiologia vegetale”, che viene studiata in alcuni laboratori specifici, come il LINV (Laboratorio di Neurobiologia Vegetale) di Firenze e il MintLab di Murcia, in Spagna. Un tale interesse, come sottolinea il botanico Stefano Mancuso – vera e propria star della divulgazione scientifica internazionale – è utile per portare le piante al centro del discorso pubblico, eliminando quella cecità che per millenni ha abbagliato il nostro sguardo. Lo stesso Mancuso fa spesso questo esperimento durante le sue conferenze: mostra al pubblico la foto di una intricatissima foresta, dove al centro sta un solo animale (una scimmia o un giaguaro, non importa) immerso nel verde. Poi chiede: “Che cosa vedete?”. Il pubblico risponde una scimmia o un giaguaro. Nessuno nota le piante (anche se occupano tutta la scena!). Sono sfondo, palcoscenico per la vita animale.
Non dovete tuttavia pensare che oggi la comunità scientifica sia concorde nel ritenere le piante esseri intelligenti. La maggior parte dei ricercatori è scettica e non fa che lanciare appelli affinché non si trasformi il discorso scientifico in una vera e propria opera di antropomorfizzazione dell’altro vegetale. Il rischio, dicono, è che il grande pubblico si faccia idee sbagliate su alberi, arbusti e rampicanti, associando le loro azioni, i loro ruoli e in generale la loro esistenza alle rispettive caratteristiche umane. Le piante non sono intelligenti, dicono, hanno una loro unicità, modi peculiari per rispondere agli stimoli del mondo. Sono, in un certo senso, aliene rispetto a noi. Così come dovremmo evitare di umanizzare un cucciolo di leone, il comportamento di un polpo sui fondali marini, le movenze di un ragno danzatore, dovremmo andarci piano anche con i vegetali. E questo non per sminuirne il fare quotidiano, a volte davvero eccezionale, non per mostrarci ancora una volta superiori, sfoggiando tutto il nostro antropocentrismo, bensì per rendere giustizia all’altro e alla sua singolarità, evitando di smorzarla, ancora una volta, leggendola attraverso una lente tutta umana.
Anche in campo letterario piante e foreste stanno acquisendo spazio. Il sussurro del mondo (La Nave di Teseo, 2019), del romanziere americano Richard Powers, è un’opera completamente dedicata all’universo vegetale. Nel 2019 ha vinto il premio Pulitzer per la narrativa e nel 2018 è stata fra i finalisti del Booker Prize. Anche in questo caso, però, il rischio di proporre un altro vegetale fortemente umanizzato è sempre alto. La letteratura, si sa, è fatta dall’umanità per l’umanità, e dentro un romanzo o un racconto è difficile trovare protagonisti non umani che lo siano effettivamente. Come faccio a raccontare una quercia senza umanizzarla? Come faccio a farla muovere, a farla agire, a mostrarla sulla pagina senza correre il rischio di non essere compreso dai miei lettori o di scivolare nello sperimentalismo più audace e indecifrabile? Lo stesso discorso vale per gli animali. Dalle Favole di Esopo in avanti gli animali, quando compaiono, sono destinati a essere compagni silenziosi oppure protagonisti umanizzati in opere dai fini moralistici. Per piante e animali bisognerebbe trovare una via che possa dare loro dignità e, al tempo stesso, restituire al lettore personaggi vivi sulla pagina tanto quanto quelli umani. Ma non è facile. Così come la scienza fatica a trovare una definizione completa e condivisa per il termine intelligenza, in letteratura si tribola per portare sulla pagina una vicenda interspecifica che non sia, ancora una volta, svilente per chi essere umano non è.
Secondo il romanziere e saggista Amitav Ghosh la tendenza in letteratura a mettere la natura (qualunque cosa si intenda con questo termine controverso e dalla lunga storia) sullo sfondo ha un’origine precisa. Il romanzo borghese, nato in Francia nell’Ottocento, ha progressivamente escluso dalla narrazione, dal palcoscenico, tutto ciò che non fosse umano e cittadino. Animali, piante, eventi atmosferici e paesaggi sono finiti a fare le comparse. Da quel momento in avanti abbiamo fatto fatica a inserire nella pagina funghi, uragani, sequoie, alghe, terremoti e fenomeni evolutivi. L’appello lanciato dall’autore del Paese delle maree e L’isola dei fucili (Neri Pozza, 2005 e 2019) è chiaro: dobbiamo trovare “altri modi di immaginare gli esseri e gli eventi impensabili della nostra era”. Perché oggi, nell’era di policrisi in cui viviamo, la nostra incapacità di inserire nelle nostre storie i non umani, ci sta impedendo di raccontare il mondo che cambia, la sesta estinzione di massa, la crisi climatica e i suoi effetti, lo sbiancamento dei coralli e gli incendi che devastano le foreste del pianeta.
In un mondo complesso come quello attuale, funestato da crisi di natura altrettanto complesse, non esiste una risposta unica. Le risposte, e le soluzioni, sono tante, innumerevoli. Fra queste, c’è sicuramente l’allenamento al cambio di prospettiva. Perché non impariamo – e vale tanto per gli scienziati quanto per i letterati – a volgere lo sguardo altrove, a metterci nei panni di altri umani che guardano in modo diverso da noi WEIRD (Western, Educated, Industrialized, Rich, e Democratic)? Perché per qualche ora al giorno, immersi in un bel testo di antropologia o davanti a un documentario, non proviamo a vedere sul serio il mondo intorno come farebbe un abitante dell’Amazzonia o della Papua Nuova Guinea, o ancora un inuit della Groenlandia? Si tratta di un esercizio utile, una decolonizzazione dell’immaginario occidentale che accende l’altro non umano di nuovi caratteri, di nuove intelligenze, di nuove storie. Il cosiddetto “prospettivismo amerindio”, formalizzato dall’antropologo brasiliano Eduardo Viveiros de Castro, fa proprio questo: esamina altri punti di vista e ragiona anche su come i popoli amerindi del Sudamerica considerino il loro sguardo sul mondo. Si tratta di un universo spesso completamente ribaltato rispetto al nostro. Là l’umanità non è emersa dal mondo naturale (attraverso l’evoluzione o la creazione), ma l’umanità precede tutto il resto e tutto il resto è emerso dall’umanità. Ne consegue che ogni animale della foresta, ogni albero, ogni fungo e persino gli elementi della terra abbiano in loro un cuore, alcuni direbbero un’anima, umana, nascosta da un abito esteriore. In un mondo simile, è ovvio che l’antropocentrismo non ha più senso di esistere, perché tutto, con le sue specificità, è umano. Ed ecco che ogni azione nella foresta diventa un dialogo attento e preciso: con il tapiro da cacciare, con il giaguaro predatore che si aggira nella boscaglia, con le piante psicoattive che regalano visioni agli sciamani, con i fiumi inquinati dalle miniere che contribuiscono alla deforestazione.
In conclusione, potremmo dire che sia la scienza e sia la letteratura devono ancora fare tanta strada per sondare, descrivere, raccontare e illuminare il rapporto interspecifico che lega la nostra specie alle altre che abitano il pianeta Terra. Le strade sono innumerevoli e la tendenza all’ibridazione – fra generi, fra discipline, fra soggetti stessi – non può che essere fruttuosa, perché poche cose sono definite e monolitiche, a cominciare dal concetto stesso di specie. Inoltre, ogni discorso e ogni ragionamento di questo tipo non può evitare di tirare in ballo il linguaggio. Come possiamo restituire unicità a piante, animali, batteri e funghi se per descriverli usiamo ancora le parole dell’umano? Il linguaggio scientifico va bene per paper e convegni, mentre risulta oscuro a chi scienziato non è. Servono nuovi termini, serve una fucina di nuove parole per descrivere gli altri non umani. Ogni lavoro, ogni saggio che analizza la questione si arena qui. Il micologo britannico Merlin Sheldrake, autore di uno straordinario lavoro divulgativo sui funghi (L’ordine nascosto, pubblicato da Marsilio nel 2022), non ha dubbi: trovare nuove parole per descrivere la meravigliosa complessità che abbiamo intorno è compito dei poeti. Occorrono sperimentatori della parola. Occorre chi sappia osare sulla pagina con cognizione di causa. Occorrono nuovi sguardi. Non solo nuove parole, ma nuove trame.