La poetica degli oggetti e dei rifiuti
di Laura Mollea
Nicoletta Verna
Il valore affettivo
pp. 296, € 18,
Einaudi, Torino 2021
Bianca Lombardi, protagonista del Valore affettivo, avrebbe un presente pressoché incantevole se non fosse ostaggio di un passato traumatico e irrisolto: possiede una bellezza invidiabile, conduce una vita più che agiata nel lussuoso attico romano su via Panisperna, ha al suo fianco un compagno eccezionale – il suo ex professore di patologia generale Carlo Del Re, premuroso, affascinante e carismatico cardiochirurgo la cui fama internazionale sta per decollare definitivamente anche grazie a quello che la coppia ha ironicamente soprannominato “Mazinga”, il costoso macchinario di robotic surgery che consente di salvare il cuore e quindi la vita a pazienti affetti da malattie incurabili quali il mixoma. Bianca ha però alle spalle la storia di una famiglia spezzata dalla morte della sorella quattordicenne Stella, di cui Bianca ritiene di essere responsabile: dopo innumerevoli tentativi di suicidio e altrettanti anni di anaffettivo silenzio, la madre è ospite di una residenza sanitaria da quando è entrata in un’ulteriore dimensione di oblio, ossia quello alzheimeriano; il padre invece ha scelto di cercare infine una nuova vita e una nuova famiglia, scomparendo a Lugano con un’altra donna.
I fantasmi del passato e le ossessioni del presente conducono Bianca lungo un’inesorabile traiettoria di lucida follia, caratterizzata in primo luogo dall’irragionevole desiderio di concepire e dare alla luce una figlia da restituire a sua madre (“la presenteremo a mia madre dimostrandole che tutti questi anni non sono mai passati, tutto questo dolore non è mai esistito”); una volontà di redenzione che – prima ancora dell’amore, dato che emozioni e sentimenti si sono via via azzerati dopo “la disgrazia” – l’ha indotta a scegliere Carlo per la sua apparente perfezione come il migliore “patrimonio genetico” in assoluto (“avremo una figlia proprio come lui, pura come lui, decisa come lui…”; “…sapevo dentro di me che doveva esistere una persona come lui. E che ci avrebbe reso Stella. Quello che dovevo fare mi fu finalmente chiaro”). Parallelamente a tale velleità, che non scende a compromessi nonostante un quadro ginecologico via via più pernicioso e in grado di mettere a repentaglio la sua stessa sopravvivenza, Bianca è dominata da un’ulteriore mania, la fissazione che lei confessa attraverso le “liste mentali dei rifiuti”, generate da “un’attrazione innata per la necessità dell’uomo di espellere resti, avanzi, scarti, emissioni. Come chi soffre di vertigini ha un’attrazione innata verso il vuoto”. La tentazione di destinare ai rifiuti gli oggetti più svariati (le sontuose spese appena fatte allo smisurato centro commerciale, o le generose regalie dei pazienti cui Carlo ha restituito la vita, o ancora l’elefantino azzurro di Sofia…) e l’ambizione di mettere meticolosamente ordine individuando l’adeguato contenitore per le diverse sostanze che compongono ogni oggetto di scarto (“…stacco con le forbici gli occhi e li getto nella raccolta della plastica, lo sventro per fare uscire l’imbottitura di pula di miglio e versarla nell’organico, metto il resto nell’indifferenziata”; “È la prima volta che lo faccio in un luogo pubblico e sento una lieve ebbrezza (…). Catalogo diversi grumi di capelli per l’organico, un infradito rotto per la plastica e otto fazzoletti per la carta”) diventano così un delirio in crescendo, che spinge Bianca a gesti talora ripugnanti (infilarsi in un cassonetto della nettezza urbana, raccogliere escrementi in una piazzola verso la Maglianella, addentare il tampax usato del cestino dei servizi dell’ufficio…). Nonostante l’aberrazione, è però proprio attraverso il leitmotiv delle liste degli oggetti e dei rifiuti, che paradossalmente l’autrice pare disvelare una dimensione poetica, se non una possibile chiave di lettura del titolo e dell’intero romanzo: “Certo che chi se ne va è migliore di chi resta: abbandona ogni egoismo e smette di distruggere l’equilibrio instabile del pianeta producendo rifiuti (…). Continuo a pensare a chi se ne va e a chi resta e al loro trait d’union più evidente: gli oggetti. L’immagine più nitida della morte sono gli oggetti che le persone lasciano, con quello che chiamiamo valore affettivo”.
In una trama gestita da Nicoletta Verna con ritmo serrato e scrittura tanto agile quanto attenta, a generare curiosità e interesse nel lettore intervengono poi numerosi altri elementi, quali ad esempio le vicende che riguardano la famiglia di Carlo e il personaggio del padre, o il rapporto con l’amico ed ex compagno di studi Nicola e sua figlia Sofia (in una galleria di personaggi che va ben al di là della ristretta cerchia dei protagonisti), o ancora le fallimentari divertenti sedute di Bianca dallo psicoterapeuta, o soprattutto gli eterogenei dibattiti che si svolgono fra Consulenti, Cliente e Target all’interno del Focus Group della società di ricerche di mercato per cui Bianca lavora (sbobinando le loro interviste): una formidabile distinta di prodotti, dinamiche, manipolazioni e follie collettive, quali ad esempio l’app che ti avverte quando dimentichi il figlio in macchina, i gusti da scegliere per il chewing gum dell’igiene orale del cane, l’inaffidabilità dei software per gli incontri romantici, l’obsolescenza programmata e quella percepita fra elettrodomestici e cellulari, la creazione di uova biologiche che promettono di bypassare il problema etico ovvero economico della triturazione dei pulcini maschi. Un resoconto che pare assumere la funzione di controcanto corale, di mise en abîme che colloca le ossessioni di Bianca in uno spettro più ampio, quello del nostro malsano disequilibrio con quanto alimenta e dà senso all’esistenza, del “disagio che c’è dietro la parvenza di normalità di ogni vita umana”.
Con Il valore affettivo, finalista al Premio Calvino e Menzione Speciale della Giuria 2020, Nicoletta Verna ci regala così il suo promettente romanzo d’esordio, un romanzo magnetico, coinvolgente, compiuto.