Ersilia Crisci – La preferita

OPERA SCELTA PER IL RETELLING: Le metamorfosi, Publio Ovidio Nasone, 8 d.c. (edizione

consultata: Einaudi)

ELEMENTO SCELTO: personaggio – Callisto

Ersilia Crisci
La preferita

Venerare gli dei ed essergli devoti è certamente cosa buona e giusta. Tutt’altra cosa, invece, è innamorarsene. Soprattutto se sei una vergine che ha fatto voto di castità, e se l’oggetto del tuo desiderio è proprio la dea vergine a cui fai da ancella, Artemide. Famosa, tra le altre cose, per aver dato in pasto a cani e cinghiali tutti i suoi pretendenti.

Queste più che fallimentari premesse sarebbero bastate a chiunque per rinunciare a qualsiasi pensiero anche solo vagamente romantico, ma non a me. Sapevo che era sbagliato, che non avrei dovuto provare per lei nient’altro che una pia venerazione. Mi sono opposta con tutte le mie forze a questo sentimento, tutte. Ma Artemide non mi ha di certo aiutata.

«Callisto, sei la più coraggiosa delle mie ninfe», mi ha detto una volta mentre facevamo il bagno insieme, dopo la caccia. L’acqua fresca della fonte accarezzava i nostri corpi nudi, scivolava dolcemente sulle sue spalle sinuose e sul suo viso, luminoso come la luna.

«E sei la più bella», ha aggiunto in un sussurro. Sono arrossita.

«Grazie, mia dea».

Ero la sua preferita. E lei non lo nascondeva affatto.

Essere la preferita di una dea potrebbe sembrare una fortuna, ma la realtà può essere ben diversa. Con lei era tutto un tienimi l’arco, e prendi quel cervo, e spogliati di qua, e facciamo il bagno di là, e lavami la schiena, e spalmami gli unguenti sul corpo. E che corpo. Irresistibile.

L’amore per Artemide è stato la mia rovina. Oltre all’inganno ordito da suo padre Zeus, ovviamente. Per non parlare della rabbia cieca della sua matrigna Era. Chiunque pensi di aver avuto una famiglia disfunzionale potrebbe ricredersi, conoscendo la loro.

Cosa non avrebbe fatto Zeus pur di possedere una donna. Il suo repertorio di trasformazioni comprendeva cigni, tori, aquile, serpenti, piogge d’oro. Ma con me ha veramente esagerato, è stato davvero crudele.

La prima volta che ho incontrato Zeus ero ancora una bambina, e lui aveva appena sterminato la mia famiglia. Era venuto a palazzo travestito da contadino per verificare se mio padre Licaone, re dell’Arcadia, fosse davvero così empio come si diceva. Mio padre, che era effettivamente così empio come si diceva se non peggio, in quell’occasione aveva dato il meglio di sé. Per scoprire se quel contadino fosse in realtà un dio, gli aveva offerto per cena un banchetto a base di carne umana.

Mi sono interrogata a lungo sul senso di quel gesto. Chiaramente mio padre doveva essere un uomo non solo empio ma anche cretino, perché solo a un cretino poteva venire in mente un’idea del genere.

«Re Licaone, sospettiamo che il contadino nostro ospite sia in realtà il sommo, potente Zeus».

«Perfetto, nel dubbio offendiamolo a morte dandogli da mangiare l’inserviente del secondo piano».

Niente, per quanto ci provi continua a sfuggirmi la logica.

Com’era prevedibile, al primo boccone Zeus scoprì l’offesa e andò su tutte le furie. Trasformò mio padre in un uomo lupo, condannandolo così a cibarsi per sempre solo di carne umana, e fulminò uno a uno i miei cinquanta fratelli che, a dire la verità, erano tutti tali e quali al padre, ossia uno più carogna dell’altro.

I maschi di famiglia lasciavano talmente tanto a desiderare che nemmeno mia madre Cillene sembrò affliggersi più di tanto per la sorte del marito e dei figli. Mia mamma era una ninfa delle sorgenti nonché un’esperta di bon ton, sapeva molto bene come ci si comporta a tavola con le divinità. Avrà pensato che, tutto sommato, non si può certo offrire a un dio un inserviente arrosto per cena e sperare poi di farla franca.

«Guardati intorno, Callisto», mi ha detto quando, andato via Zeus, siamo entrate nella grande sala dei ricevimenti. Nell’aria si sentivano ancora l’elettricità delle saette e la puzza di carne bruciata, e a terra, tra le sedie e i tavoli rovesciati, c’erano sparpagliati i corpi esanimi dei miei fratelli.

«Guarda bene e ricorda: l’unica cosa davvero buona e giusta è venerare gli dei ed essergli devoti».

Non l’ho mai dimenticato. Dal primo momento ho servito Artemide fedelmente, senza risparmiarmi. Ero sempre in prima linea al suo fianco durante la caccia, la prima ad obbedire a ogni suo comando, la prima a difenderla dagli sguardi maschili indiscreti che cercavano di spiarla quando faceva il bagno.

«Preso! Mia dea, eccone un altro. Era nascosto qui, dietro al cespuglio».

«Come osi spiarmi mentre faccio il bagno, mortale?»

«Perché, che ho fatto di male? Gli occhi sono fatti per guardare. Mica è colpa mia se indossate dei pepli così corti o se fate il bagno nude. Se non vi sta bene copritevi, no?»

Ecco un altro genio che pensa di poter litigare con una divinità e uscirne vivo.

«Callisto, libera i cani».

Non era facile avere a che fare con Artemide. Era così veloce nell’usare frecce e giavellotti, così come nell’indispettirsi, che anche noi ninfe correvamo sempre il rischio di venire infilzate per un nonnulla. Oltre a essere la dea della caccia, Artemide è la dea della luna. Dire che fosse lunatica è poco. Più che un’eterna giovinezza, la sua sembrava un’eterna adolescenza. Era capricciosa, impetuosa, libera e selvaggia. E bellissima.

«Callisto, gli unguenti».

«Subito, mia dea».

Aveva la pelle liscia e levigata, più morbida di qualsiasi altra cosa abbia mai toccato. Iniziavo sempre dalle spalle, sinuose ed eleganti, ma solide, e continuavo giù per le braccia. Facevo poi scivolare lentamente le mani giù per la schiena fino alla vita sottile, e poi ancora più giù, seguendo la linea morbida dei suoi fianchi. Continuavo sulle gambe, lunghe, sottili e scattanti.

«Bene. Ora davanti».

Quando si girava verso di me era sempre un’emozione. Sentivo scorrere sotto le mani il ventre piatto, la tonicità dei muscoli, poi la durezza delle costole, il movimento ritmico del respiro. E i seni erano piccoli e tondi…

«Callisto, ti tremano le mani?»

«No, mia dea. O forse sì. A dire la verità non lo so, mia dea». Temo di essere arrossita. Mi sono venuti in mente i cani. Chissà se erano già stati legati.

«Sai che diventi ancora più bella, quando arrossisci?»

Avvampo ancora di più. Mi domando perché mi parla così. Ha forse intuito il mio tormento e si diverte a torturarmi? O forse, più probabilmente, sono io a trovare nelle sue parole qualcosa che non c’è. Non rispondo, resto in silenzio con gli occhi bassi.

Artemide mi prende il viso tra le mani e lo solleva dolcemente, fino a farmi incontrare il suo sguardo. Seguo l’arcata perfetta delle sue sopracciglia e degli zigomi. Mi guarda con i suoi grandi occhi, scuri e profondi come la notte, ma non riesco a decifrare il suo sguardo, non capisco cosa vuole da me. Lentamente, le sue labbra carnose si schiudono.

«Sei davvero la mia preferita».

Lascia andare delicatamente il mio viso, sfiorandomi una guancia. È una carezza. Il cuore mi salta nel petto. Possibile che anche lei ricambi i miei sentimenti?

Sento i cani abbaiare in lontananza. Mi chiedo se gli abbiano già dato da mangiare.

Un giorno mi sono stesa a riposare su un prato in un boschetto. Mi ero slacciata i calzari, avevo sciolto i capelli e lasciato l’arco e la faretra a terra, accanto a me. Guardavo le nuvole bianche scorrere nel cielo terso e azzurro, mentre una leggera brezza tiepida portava con sé il profumo dei fiori appena sbocciati.

Senza accorgermene, i miei pensieri sono tornati ad Artemide. Alle sue spalle. Ai suoi occhi. Alle sue labbra. Al contatto delle mie mani sulla sua pelle. Ed ecco di nuovo quella sensazione di tormento che da tempo non mi lasciava più in pace. Ho poggiato un braccio sugli occhi e mi sono addormentata.

Poco dopo, mi ha svegliata un fruscio tra le foglie. In un attimo ero già in piedi e puntavo una freccia contro le piante davanti a me.

«Ti ho fatto paura?»

È Artemide. Abbasso l’arco e le sorrido.

«Sì, mia dea. Mi ero assopita».

«Sei stanca per la caccia?»

«Sì, forse un poco, mia dea».

Viene dritta verso di me. Avverto qualcosa di strano, ma non capisco cosa.

«Dove sei stata a cacciare?»

Mi prende per mano.

«Qui nei dintorni, mia dea».

Mi tira a sé. Sento la morbidezza inconfondibile della sua pelle.

«Mi accogli così freddamente?»

La sua domanda mi disorienta. Stringe più forte la presa attorno alla mia vita. Non ho il tempo di risponderle che mi bacia sulla bocca, con impeto. Che sta succedendo?

Osservo il suo viso con attenzione, in cerca di una risposta. Seguo l’arcata delle sopracciglia e degli zigomi. Le labbra carnose hanno un leggero fremito. Ha gli occhi di fuoco puntati nei miei, sembrano bruciare come fossero dei tizzoni ardenti. Per la prima volta capisco perfettamente che cosa vuole da me.

Sono riuscita a nascondere per ben nove mesi quello che è successo. Ho smesso di essere in prima fila durante le battute di caccia, di obbedire per prima a ogni ordine, di fare il bagno in compagnia. Non so come, ma ha funzionato. Artemide non si è accorta che aspettavo un bambino.

Chiaramente, quel giorno al boschetto ho capito troppo tardi che non era lei. Cosa avrei mai potuto dirle? “Mia dea, tuo padre mi ha profanata e messa incinta travestendosi da te”. Figuriamoci. Già è abbastanza imbarazzante essere violata, ma una confessione del genere è da seppellirsi per la vergogna, meglio la morte. Che in effetti era proprio quello che mi aspettava, anche se non sapevo per mano di chi, se di Artemide perché avevo infranto il mio voto di castità, o di Era perché aspettavo un figlio da suo marito.

Un giorno, alla fine del nono mese, Artemide si è voluta fermare con noi per fare il bagno. In poco tempo tutte le mie compagne si sono spogliate e buttate in acqua. Ero rimasta l’unica sulla riva, e per di più ancora vestita.

«Callisto, che stai aspettando, vieni in acqua anche tu».

Non sapevo cosa rispondere. Ho tergiversato. Artemide si è insospettita.

«Callisto, perché non ti spogli e non vieni in acqua insieme a noi?»

Mi sono paralizzata. Per quanto abbia provato a trattenerla, ho versato una lacrima. In un attimo, dietro suo ordine, sono stata circondata e immobilizzata dalle altre ancelle.

«Spogliatela».

Le mie compagne mi hanno strappato le vesti di dosso. Davanti al mio ventre gonfio Artemide è impallidita, come un’amante tradita.

Allora forse davvero ricambia i miei sentimenti, ho pensato.

Dopo questo, però, non ricordo molto. È successo tutto troppo in fretta, ho solo qualche flash. Artemide, pallida e furiosa. Io che vengo trasformata in un’orsa e scappo più veloce che posso. I cani che mi inseguono e mi azzannano a morte. Mi sono risvegliata direttamente qui, tra le stelle, con mio figlio Arcade accanto.

Quello che è successo me l’hanno raccontato poi le costellazioni a me vicine. A quanto pare, Era aveva scoperto che Zeus mi aveva messa incinta, ed è venuta alla fonte su tutte le furie. Mentre Artemide era ancora paralizzata per lo shock per la mia gravidanza, Era mi ha punita trasformandomi in un’orsa. I cani mi hanno fiutata e inseguita dandomi la caccia. Mi hanno raggiunta e azzannata. Mentre dilaniavano le mie carni, finalmente Artemide si è ripresa ed è intervenuta, salvandomi giusto in tempo. Ha trasformato me nella costellazione dell’Orsa Maggiore, e mio figlio in quella dell’Orsa Minore.

Avevo ragione, non mi ero sbagliata: Artemide ricambiava davvero i miei sentimenti.

«Artemide, sai che trovo molto romantico che tu mi abbia portato qui in cielo con te?», le ho detto quando l’ho incontrata la prima sera, lei sotto forma di luna e io di stelle.

«Ma che dici, Callisto…»

«Artemide…»

«Cosa?»

«È la prima volta che ti vedo arrossire».

È avvampata ancora di più. E non è stata l’unica volta. A dire la verità ci ho proprio preso gusto, così ogni tanto le dico qualcosa apposta per metterla in imbarazzo.

«Artemide, le trovi belle le stelle della mia costellazione?»

«Sì, sono bellissime».

«E io sono ancora la tua preferita?»

«Callisto, smettila sennò ti rimando giù e questa volta i cani non li fermo».

Ovviamente quando la provoco se ne accorgono tutti: la luna rossa non passa mai inosservata. Quello che nessuno sa è che dietro di lei ci sono io, a sussurrarle tutte quelle parole dolci che non avevo potuto dirle prima.