Scrivo queste parole con la penna, su un foglio di carta, compiendo un gesto antico e dimenticato. Se qualcuno sarà in grado di interpretarlo, saprà quello che io e mia moglie abbiamo vissuto, e forse capirà.
Arrivammo alla clinica in una giornata torrida. La terra arida si spaccava a ogni passo e riempiva l’aria di polvere. Mia moglie tossiva, io cercavo di non perdere di vista il sentiero.
Ci presentammo all’accoglienza in condizioni penose, sporchi e sudati. Per un attimo tememmo che la bioscansione ci avrebbe respinti, invece riuscimmo a metterci in fila nell’atrio gelido. Davanti a noi altre coppie si tenevano per mano; di tanto in tanto bisbigliavano qualcosa e sorridevano indicando le immagini dei piccoli che scorrevano sugli schermi.
Quando arrivò il nostro turno, una donna ci fece accomodare in una stanza semibuia. Avvertimmo la presenza dei contenitori nell’oscurità, un ronzio lieve, l’odore acre. Sentii gli occhi riempirsi di lacrime, mia moglie iniziò a piangere e si strinse a me: eravamo finalmente nella Camera della Grande Scelta.
La voce del dottore ci sorprese alle spalle: “Bene, signori, immagino abbiate le idee chiare. Maschio o femmina?”
“Non importa,” risposi, “ci premono di più altre caratteristiche.”
“Non preoccupatevi, siete alla Perfectum, potete chiedere tutto.”
Mia moglie mi guardò: “Forza, di’ al dottore il tuo desiderio.”
Ero titubante. Volevo un bambino o una bambina senza aggettivi, ma sapevo che era l’unica cosa che non potevo chiedere alla clinica.
Risposi come ci si aspettava in quella circostanza: “Maschio, sano, intelligente. Per il resto, sceglieremo in base alle descrizioni e ai desideri miei e di mia moglie.”
Il dottore sorrise compiaciuto e, con un rapido gesto delle dita sullo schermo davanti a sé, illuminò la stanza. Lungo le pareti erano disposti contenitori di varie dimensioni, collegati tramite tubi trasparenti a una grande vasca appesa al soffitto. Un liquido verdastro percorreva il circuito facendolo assomigliare a una ragnatela.
Guardai mia moglie, incantata di fronte a tanta varietà. Osservava con attenzione gli organi, gli occhi, i capelli. Si avvicinò ai recipienti più bassi, in cui erano esposte le unghie.
“Meglio partire dalla testa o dal cuore, signora,” disse il dottore.
L’assetto delle pareti mutò con un movimento di sottili bracci meccanici, che sostituirono i contenitori con vasi di vetro. In essi, immersi in una sostanza vischiosa, erano inseriti i componenti fondamentali, accompagnati dalla presentazione delle loro caratteristiche cerebrali, emotive e affettive.
“Ora, signori, prendetevi tutto il tempo che vi serve e concepite vostro figlio. Vi basterà toccare i vasi con i pezzi di vostro gradimento.” Il dottore ci diede un foglio luminoso su cui era disegnato il corpo di un bambino diviso in sezioni. “Con questo potrete gestire meglio l’assemblaggio, così non dimenticherete nulla.”
“Grazie”, dissi, “forse abbiamo già adocchiato qualcosa”. Una testa aveva attirato la mia attenzione: aveva una forma regolare e la fronte alta, come la mia.
“Mi raccomando,” disse il dottore, “non pensate che qualche pezzo vi assomigli. Sarebbe un errore.”
Durante il viaggio di ritorno io e Maria restammo in silenzio. Forse ci eravamo concentrati a tal punto nella preparazione di nostro figlio che avevamo bisogno di riprendere il filo dei pensieri.
Camminammo fianco a fianco nell’aria quasi irrespirabile, illuminati dagli ultimi raggi del sole. Le nostre dita rimasero sempre intrecciate, nonostante il terreno accidentato e la calura, ma nessuno dei due riusciva a guardare l’altro. Era già buio quando arrivammo a casa. Chiusi la porta alle nostre spalle, ma non volevo lasciare la mano di mia moglie. Cercai il suo sguardo, mi avvicinai un po’ più del solito, lei fece lo stesso. La baciai, travolto da un desiderio di cui avevo perso il ricordo.
Quella notte facemmo l’amore, abbandonandoci ai gesti spontanei della ricerca del piacere. Sentii la voce di mia moglie tornare limpida come un tempo, vidi una nuova luce nei suoi occhi.
“Ci hanno detto che ormai il sesso non è adatto,” sussurrò Maria mentre si rivestiva.
Sentivo ancora i muscoli tesi e il sangue pulsare, ma ero turbato. Avevamo compiuto un gesto animale, riprovevole. Noi eravamo chiamati a ricorrere ad altre pratiche: l’Imperium era chiaro.
“Non dobbiamo sentirci in colpa,” disse Maria intuendo il mio stato d’animo. “Una volta in vent’anni può capitare. Forse la gioia di un figlio perfetto ci ha dato alla testa.”
Qualche settimana dopo, mia moglie mi raggiunse nello studio durante la riunione con i miei sottoposti, decine di facce allineate sul monitor al centro della stanza. La sua visita mi sorprese, perché non mi disturbava mai. Staccai subito il collegamento e la osservai: era pallida e si copriva la pancia con le mani.
“Sono incinta,” disse.
Mi sentii precipitare nel vuoto, per un attimo la mia mente si spense, annientata dalla vertigine che quella notizia portava con sé.
“Voglio tenerlo,” disse Maria, lo sguardo fisso in un punto lontano.
“Non si può, lo sai. E il Perfectum è in preparazione,” risposi io.
“Siamo sempre in casa…non sarà difficile nascondere la gravidanza,” insistette lei.
“I figli perfetti non nascono così.”
Maria scosse la testa: “Non lo pensi davvero.”
Mi sentivo sopraffatto dalle difficoltà e dai rischi a cui saremmo andati incontro sfidando l’Imperium, ma, al tempo stesso, non ero mai stato tanto felice come in quel momento. Avrei potuto avere un figlio della mia carne, un figlio senza aggettivi. Pregi e difetti sarebbero emersi piano, giorno dopo giorno, con oscillazioni e scatti imprevedibili.
Mi avvicinai a lei e quando la abbracciai sentii le sue lacrime inumidirmi il collo.
“Potremmo sistemare i sotterranei e nasconderlo lì,” dissi, “ma sai cosa succederebbe se ci scoprissero.”
Maria annuì. Avevamo deciso.
Nelle cantine della villa scendevo solo quando mi assaliva la nostalgia della carta. Avevo nascosto un centinaio di libri in uno stanzino, insieme a quaderni ingialliti e a un po’ di cancelleria, e ogni tanto mi rifugiavo là sotto a sfogliare le pagine o a scrivere qualche riga a mano.
Il resto dell’interrato era rimasto vuoto, perché a me e mia moglie erano sempre bastati i piani superiori. Il bambino avrebbe avuto a disposizione uno spazio fresco, lontano dalla polvere e anche abbastanza luminoso, perché i bagliori del sole rischiaravano i locali grazie a un sistema di lenti che occultavano l’interno.
Lavorai nei sotterranei in ogni momento libero, mentre il corpo di Maria si trasformava. Di notte rimanevo sveglio a contemplare il profilo della pancia, ne registravo i movimenti e al più piccolo tremolio sussultavo, tra la gioia e lo smarrimento. Appena mi addormentavo sentivo il ronzio di un laboratorio e mi svegliavo.
I miei due figli vennero al mondo lo stesso giorno.
Uno, nel cuore della notte, sgusciò accartocciato tra le mie mani, minuscolo, vigoroso. Lo deposi sul petto di Maria e lui cercò subito il capezzolo per succhiare il latte. Non riuscivo a parlare, guardavo mia moglie e ascoltavo il vento sbattere contro i muri della villa.
Presi una garza e iniziai a pulire delicatamente il bambino. Tolsi le incrostazioni di sangue e portai alla luce la pelle candida, liscia, i capelli impalpabili. Percorsi il suo corpo con le dita, lo annusai, profumava di pane.
Appoggiai la testa sul ventre vuoto di Maria e mi lasciai cullare dal ritmo dei nostri tre respiri, capaci, insieme, di sovrastare il vento.
Il Perfectum giunse verso sera. Il lungo squillo che annunciava la consegna dei bambini perfetti risuonò nella pianura riarsa e dopo qualche secondo si attivò il bioscanner della casa. Quando aprii la porta, mi trovai davanti il bambino, ma stentai a riconoscerlo, perché era ricoperto da una speciale tuta bianca che impediva alla polvere di appiccicarsi ai vestiti o di irritare gli occhi.
Appena entrati, il bambino estrasse da una tasca il foglio luminoso usato in clinica, me lo porse e iniziò a togliersi la tuta.
Certificato di conformità Perfectum: vostro figlio è stato creato con i componenti e le caratteristiche da voi selezionate. Dopo queste parole, il foglio riportava tutti i codici e le specifiche dei pezzi e degli organi, accompagnati dall’elenco degli aggettivi: affettuoso, sicuro di sé, curioso. Ne avevamo individuati trenta.
Alzai gli occhi e me lo trovai davanti: un bambino senza età, straordinariamente bello, con lo sguardo sveglio, il corpo proporzionato. Io e Maria avevamo scelto bene.
La bocca del bambino si aprì in un sorriso: “Ciao, papà.”
Quella parola, papà, mi colse di sorpresa. Il pensiero corse alla creatura appena nata nei sotterranei.
“Posso abbracciarti?” disse il Perfectum.
Mi corse incontro e si avvinghiò alle mie gambe, io mi abbassai cercando di allentare un po’ la presa. Quando lo toccai, sentii la sua pelle sotto le dita. Era ruvida, compatta. Gli sfiorai un braccio e all’altezza del gomito colsi la traccia di una cicatrice sotto pelle.
Si sciolse dall’abbraccio e mi fissò: “Dov’è la mamma?”
“Eccomi, tesoro.” Maria era appena entrata nella stanza e il bambino lanciò un gridolino di gioia. Mia moglie lo strinse a sé.
“Hai uno strano profumo, mamma,” disse il Perfectum allontanandosi da Maria, “sento odore di sangue. Ti sei fatta male?”
Io e mia moglie ci guardammo, percorsi da un brivido.
“No, sto bene,” disse Maria in tono allegro. “Mi sono preparata per accoglierti e ho messo un po’ di profumo. Forse era vecchio.”
Il Perfectum si fece serio: “Sento un rumore che non conosco, cos’è?”
Tesi l’orecchio e avvertii, flebile e lontano, quasi impercettibile, il pianto di un bimbo. Guardai Maria, lei scosse la testa: “Io non sento niente”.
Cercò di abbracciare il bambino, ma lui si divincolò e iniziò a correre lungo il corridoio.
“Lo sento, lo sento,” urlava mentre apriva tutte le stanze. Si precipitava dentro, dava un’occhiata e poi si bloccava, per intercettare di nuovo il suono.
“Non è niente, noi non lo sentiamo. Stai fermo,” ripetevamo io e Maria cercando di fermarlo. Ogni volta che lo afferravamo, lui si liberava e ricominciava a correre.
Alla fine aprì anche l’ultima porta del corridoio più lungo: “Cosa c’è in fondo a questa scala? Il rumore viene da lì.”
“Non c’è niente,” gli disse Maria con un filo di voce. Io ascoltavo quel pianto, sempre più acuto e disperato.
Scesi i gradini a due a due e spinsi con forza la porta di acciaio, seguito da Maria e dal Perfectum. Il neonato strillava e agitava il corpicino, aveva il viso paonazzo, la bocca deformata. Appena lo sollevai dalla culla iniziò a calmarsi. Mia moglie lo prese dalle mie braccia, si sedette sul letto e iniziò ad allattarlo.
Il Perfectum rimase immobile e muto. Fissò il seno di Maria e le labbra del neonato con occhi vacui, indietreggiando con movimenti meccanici fino a toccare il muro con la schiena. Si lasciò scivolare sul pavimento, piegò la testa di lato e rimase lì, come le bambole di una volta.
“Quanto abbiamo prima che arrivino?” chiese mia moglie.
“Solo il tempo di prendere carta e penna,” dissi io.