La mattina del suo settimo compleanno Arabella si destò più tardi del solito. Ancora sotto le coperte, e tenendo gli occhi chiusi, risvegliò le mani e con quelle iniziò a tastarsi nuca, fronte, tempie, orecchie, guance e naso. Lì, le mani si fermarono, e attesero che l’indice della mano destra entrasse dentro la narice sinistra e ne uscisse fuori immacolato. Poi ripresero il loro cammino e scesero sul collo e sulle spalle. Delinearono, millimetro per millimetro, il perimetro aguzzo delle scapole e, quando sentirono il freddo delle ossa, precipitarono sul petto, punzecchiando le areole. Fino a lì, il corpo era al solito posto.
Arrivate all’altezza della pancia, e in attesa di tastarne la morbidezza, le mani caddero nel vuoto e rimbalzarono su qualcosa di ruvido e stropicciato. Arabella si sollevò impaurita, appoggiò la schiena alla testiera del letto, e si tolse la coperta. Quando tirò su la maglietta del pigiama, un grido da animale le uscì dalla bocca. Tra il petto e il bacino c’era uno spazio d’aria e, attraverso quella cavità, si intravedeva il tessuto blu del lenzuolo stellato.
Con il terrore di sprofondare a terra, Arabella si gettò fuori dal letto. Le gambe funzionavano correttamente e la bambina corse scalza di fronte all’armadio di legno. Aprì l’anta destra e specchiò a lungo il suo corpo sul vetro appannato. “Non ho più la pancia”, sussurrò Arabella e, dopo uno o due secondi di osservazione, cominciò a ridere, pensando alla felicità della madre e della maestra Paola.
Ogni sabato mattina, dopo averle strofinato la schiena, la madre diceva ad Arabella di uscire dalla vasca e di stare ritta in piedi, senza muoversi. Lei rimaneva nuda e gocciolante, i piedi bagnati sul tappeto e le dita raggrinzite. “Quanti biscotti hai mangiato a colazione?” le chiedeva la madre.
Arabella non rispondeva, e nel silenzio, la madre le si avvicinava, le toccava la pancia e afferrava i singoli rotolini, stringendoli forte. Poi iniziava a contarli: “Uno, due, tre”. Sembrava quasi che volesse strapparglieli da dosso. Ad Arabella le mani di sua madre facevano sempre male.
“Tessuto adiposo” declamava ad alta voce la maestra Paola quando la vedeva in canottiera negli spogliatoi di scuola.
“Che cos’è il tessuto adiposo?” chiedevano le compagne di classe di Arabella alla maestra.
“Domandatelo ad Arabella” rispondeva la maestra, indicando, con la mano ingioiellata, la bambina.
Arabella diceva di non sapere cosa fosse, ma, tra sé era arrivata a una conclusione: sua nonna era una sarta, e forse quel “tessuto adiposo” gliel’aveva cucito lei addosso poco prima che nascesse.
Quando si toccava la pancia, sdraiata sul letto, Arabella si sentiva a casa. La carne era molle, malleabile come il pongo che modellava all’asilo. Arabella ci metteva sopra le sue Polly Pocket e, fingendo che la sua pancia fosse la collina che vedeva dalla finestra di camera sua, muoveva quelle bamboline da una parte all’altra. L’ombelico era il focolare, e lei ci infilava il mignolo per accenderlo. Si portava poi il dito al naso e lo annusava a lungo. Il suo corpo aveva il sapore di pane.
Appena sentiva rientrare la madre, si alzava di scatto dal letto, si abbassava la maglietta e si sedeva alla scrivania fingendo di fare i compiti. Quando stava seduta la pancia formava una collinetta ancora più soffice e Arabella se l’accarezzava con tenerezza. Avrebbe tanto voluto un cane o un fratello, ma i suoi genitori non erano d’accordo.
Quando, la mattina dei suoi sette anni, Arabella uscì dalla camera, dalla sua bocca continuavano a sgusciare sempre più alte le risate della felicità. La bambina non poteva chiedere un regalo di compleanno più bello. Le ginocchia andavano più veloci e Arabella pensò che avrebbe potuto finalmente partecipare alle gare di corsa e che forse le avrebbe anche vinte. Fiduciosa nel suo futuro di atleta, la bambina si mise a correre per il corridoio. Guardando dritto davanti a sé, percorse lo spazio che c’era tra camera sua e il bagno. I piedi scalzi lasciavano impronte giallastre sulle piastrelle di maiolica, le unghie si stavano facendo viola e la pelle arancione. Arabella non se ne accorse e andò avanti e indietro per dieci minuti o anche di più. Quando aumentava la velocità della corsa, le orecchie udivano un suono ben distinto che proveniva proprio da sotto il petto. Era il rumore che sentiva quando accompagnava il padre in stazione, il treno passava e lei rimaneva sulla banchina senza salirci sopra.
“Non ho la pancia…” urlava Arabella. “Sono libera…”.
A un certo punto, sentì uno stimolo impellente provenire dalla parte bassa del corpo. Corse in bagno e serrò la porta a chiave. Sul water la pipì non usciva. Arabella spingeva più forte che poteva, ma niente, la pipì non voleva proprio venire fuori. La bambina portò la mano sinistra in quel vano profondo che le stava in mezzo alle gambe e che, nonostante la madre le avesse detto più volte che non si doveva fare, ogni notte Arabella toccava, entrando in un mondo di angoscia e piacere. Quella mattina, però, da quel buco non usciva niente. Ad Arabella mancavano il suo ombelico e il profumo che veniva da quell’orifizio. La bambina annusò l’aria intorno a sé. Non sapeva più di pane né di marmellata ma di fogna e porcile. Dov’era finito, si domandava Arabella, tutto il cibo che aveva mangiato la sera prima e la sera ancora prima? Dove si era nascosto tutto ciò di cui si era nutrita dal giorno della sua nascita?
Arabella sbuffò, si alzò e si avvicinò alla vasca. Aprì il rubinetto e iniziò a riempirla. Poi si tolse i pantaloni del pigiama ed entrò dentro. Affondò nell’acqua e per poco non venne risucchiata all’interno dello scarico. Si levò in piedi e si sedette sul bordo della vasca ma cadde indietro sul tappeto. A un tratto, dal buco in mezzo alle gambe, iniziò a uscire acqua. Arabella cercò di tappare quel buco, ma non ci riuscì. L’acqua continuava a venire fuori e a bagnare il pavimento. Ma non era pipì, era una sostanza vischiosa di colore verde. Ad Arabella ricordò la bibita con menta e zucchero che beveva ogni sera prima di andare a dormire. La notte prima ne aveva bevuta più del solito e ora eccola uscire a fiotti e disperdersi per terra. Arabella notò che, all’interno di quel liquido verde, c’era qualcosa che si muoveva. Si sollevò da terra e cercò di afferrare quegli esseri che strisciavano con lentezza sul pavimento. Erano pesci, pesci verdi.
“Ma io non mangio il pesce!” disse Arabella.
Dopo qualche prova, riuscì a ghermirne uno e lo portò alla luce della finestra. Era piccolo, glutinoso e appiccicaticcio. Aveva due cavità che si muovevano a destra e a sinistra in modo nevrotico. Erano gli occhi del terrore che venivano ad Arabella quando non sapeva risolvere un problema di geometria o quando si dimenticava il testo di una preghiera. A quella vista la bambina si spaventò e gettò il pesciolino nel water. Azionò lo sciacquone e rimase a guardare gli occhi di quell’esserino risucchiati a gran velocità. Dalla tana in mezzo alle gambe piovevano sempre meno gocce d’acqua finché non cessarono del tutto e Arabella tirò un sospiro di sollievo. Si asciugò con una pezza bianca che, contrariamente a quanto pensava, non si sporcò. La perdita era finita. Arabella si piegò e annusò il buco. Profumava di mentuccia.
Ritornò in camera da letto e si vestì. Indossò un top corto così che fosse ben visibile la scomparsa della pancia. Si guardò a lungo allo specchio e, quando sentì dei rumori provenire dalla cucina, si ricordò della madre: doveva correre da lei.
Entrò in cucina e la vide di schiena mentre stava pulendo il parquet con una scopa. Sulla tavola la madre le aveva preparato una sottile fetta di torta margherita, la sua preferita, con una candelina accesa e un biglietto di auguri a fianco, ma Arabella non aveva fame.
“Mamma mamma, guarda” urlò la bambina indicando il vuoto “non ho più la pancia”.
La madre non le rispose. Non sollevò neanche lo sguardo, ma continuò a passare lo scopetto.
“Mamma mamma, non mi senti?” ripeté la figlia, ma la madre non la sentiva. Allora Arabella le andò vicino ma la madre non la vedeva. “Mamma, ma non mi vedi?” le chiese Arabella quasi sul punto di piangere. “Non vedi che non ho più la pancia?”. La madre sollevò la testa e, passando attraverso il corpo della figlia, andò a chiudere la finestra da cui iniziava a entrare un vento freddo. A quel punto Arabella si sentì svenire e si sdraiò a terra. Il suo corpo si stava sciogliendo sul pavimento e dalle orecchie, dalle ascelle e dalle narici del naso iniziarono a sgusciare fuori palline rosse simili alle fragoline di bosco che raccoglieva in montagna con i nonni. La bambina cercò la sua pancia, ma non lo trovò e, sconsolata, scoppiò a piangere. Le sue mani non avevano più niente da toccare.