Da bambino vendevo i repack di figurine. Non proprio io, mio padre. Non era disonesto lui, ma io.
Io aprivo con molta cura le buste per non danneggiarle, cercavo le foto che m’interessavano e le sostituivo con i doppioni che intasavano il terzo cassetto della scrivania. E sempre io, con un occhio semichiuso e uno aperto, neanche fossi un orafo o un orologiaio intento a chissà quale lavoro di fino, applicavo un preciso strato di colla sui lembi di chiusura e li stendevo, esercitando una leggera pressione con l’indice, cosicché in pochi minuti il pacchetto tornasse come nuovo, pronto per essere rimesso nei box di vendita da cui ogni pomeriggio rubavo e a cui ogni sera restituivo prima che mio padre chiudesse l’edicola.
Grazie ai repack, la mia fedina penale di bambino conta 87 album completati, record assoluto negli istituti scolastici della zona.
Ora di album ne ho 49 petabyte. Di ricordi digitalizzati.
Clienti ricchi e importanti mi pagano per estrapolarli dalle loro menti e custodirli, e la grandezza del mio archivio testimonia la professionalità che mi è riconosciuta nel settore.
Eppure, a volte ancora faccio qualche repack.
Ho un’infinità di giorni uguali da cui attingere, ricicli quotidiani del medesimo schema di mangiare-lavorare-dormire.
Così, per noia e in parte per invidia, spergiuro sulla mia deontologia, mi approprio dei dati mnemonici che conservo e li sostituisco con doppioni personali.
Naturalmente, mi tengo lontano dalle memorie più spettacolari: matrimoni, nascite, funerali, viaggi, promozioni, vittorie, grandi delusioni e dolorosi fallimenti. Potrebbero averle condivise con altri, raccontate, scritte in qualche diario.
No, a me interessano i piccoli eventi, i mercoledì e i giovedì preziosi eppure insignificanti, le figurine più difficili da collezionare anche se sulla filigrana non hanno il trattamento cangiante riservato alle rare.
Le inserisco nell’album di sinapsi che ospito all’interno della scatola cranica per completare, e oserei dire migliorare, la mia raccolta, mentre rendo più banale quella altrui.
Il presidente della Salised, ad esempio, a ventidue anni giocava a poker con il padre e i suoi soci ogni venerdì sera, una sorta d’iniziazione all’alta società che avrebbe frequentato una volta assunto il ruolo di manager nell’azienda farmaceutica di famiglia.
Sebbene quelle partite fossero più simili a dei colloqui di valutazione che a non a momenti di svago, le ho invidiate da subito.
Mio padre mi voleva bene, ma non ha mai giocato con me. A dire il vero, non l’ho mai visto prendere in mano un mazzo di carte. Leggeva molto e di tutto, invece, in attesa che i clienti varcassero la porta del negozio, e così era diventato un campione teorico di scacchi, dama, rebus enigmistici, cucina vegana e analisi geopolitica.
Il sabato pomeriggio, quando mia madre gli copriva il turno, s’incontrava con gli amici storici dell’università, a rotazione nella nostra casa o da loro, e si lasciava andare a chiacchiere, risate e dialoghi sopra i massimi sistemi inzuppati nell’alcool.
Avrei voluto partecipare a quegli incontri prima che iniziasse a perdere lucidità e smettesse di raccontare storie.
Prima che la sua storia smettesse di raccontarsi.
Anche se è solo una finzione, anche se il pericolo di perdermi è reale, rimedierò oggi stesso.
In archivio ho tutti i dati che mi servono.
Da bambino vendevo i repack di figurine. Non proprio io, mio padre. Non era disonesto lui, ma io.
Io aprivo con molta cura le buste per non danneggiarle, cercavo le foto che m’interessavano e poi richiudevo il pacchetto facendo attenzione che i lembi combaciassero al millimetro. Poi, di nascosto, lo rimettevo nei box di vendita dell’edicola. Figuriamoci se i miei coetanei erano tanto svegli da accorgersi di una o due figurine in meno!
Mio padre era di certo a conoscenza dell’imbroglio, ma chiudeva un occhio. Con amore e un’infinita pazienza.
La stessa con la quale mi consentiva, il sabato pomeriggio, di giocare assieme a poker con i vecchi colleghi dell’università. Io mi mettevo a cavalcioni sulle sue gambe e sbirciavo le carte che aveva, poi scendevo, facevo il giro del tavolo, e guardavo le mani degli altri giocatori. Tornavo da lui sorridente o con la faccia corrucciata, ma non facevo nemmeno un fiato. Rispettavo la regola d’oro del gioco d’azzardo: non parlare. E così mi guadagnavo il tacito permesso degli altri a dispetto della giovane età.
Durante le partite, la conversazione rimbalzava tra i più diversi argomenti: dal motore atomico all’ipotetico rialzo del prezzo attuale della pizza al topinambur (non ho mai capito il riferimento, credo sia una goliardata risalente al tempo degli studi), che puntualmente li faceva scoppiare a ridere.
All’epoca, come è facile aspettarsi da un bambino, non seguivo bene il filo del discorso, era tutto nebuloso, indistinto, ma la barba di mio padre era soffice e rilassata e rendeva soffice e rilassato anche il mio umore.
Tranne in un’occasione, una delle ultime.
Aveva il viso teso e sofferente, soffocato dalla necessità di dire qualcosa. Mi accompagnò fuori con una triste gentilezza e chiuse la porta.
Sospetto che lì abbia deciso di confessare loro la sua malattia. A me, al contrario, non ne ha mai fatto cenno, sono stati i medici a contattarmi.
Forse è il motivo per cui, anche di fronte al progressivo peggiorare delle sue condizioni nel corso dei mesi, mi è sembrato di essere null’altro che lo spettatore di un brutto sogno altrui.
Spesso ho pensato di tornare a quella giornata per chiedergli di parlarmene a viso aperto, permettermi di abbracciarlo e piangergli sui vestiti, spingerlo a un impossibile e maldestro tentativo di consolarmi il mattino seguente con un regalo. Magari un nuovo album appena fresco di stampa.
Sì, ho davvero bisogno di tornarci.
Dovrei avere qualche dato da parte che fa al caso mio.
Da bambino vendevo i repack di figurine. Non proprio io, il mio vecchio. Aprivo i pacchetti, toglievo le più rare, e li richiudevo con maligna perfezione. Maligna, sì. Era un dispetto. Un modo per fargli scontare di avermi fatto crescere troppo in fretta il giorno che mi parlò di esseri umani e date di scadenza. Io non volevo conoscere la morte. Non volevo venire a patti con la naturale eventualità del fatto che in futuro mi avrebbe abbandonato. Ma, soprattutto, non volevo continuare a vederlo così sereno mentre serviva i clienti dell’edicola intanto che la fine si avvicinava. E allora, nel mio piccolo, sabotavo i pacchetti di figurine. Dopo quella mattina di febbraio ho smesso di riempire gli album a casa, mi limitavo a saccheggiare i pacchetti in negozio e, rientrato, buttavo le rare nel cestino prima di ricomporli. Nessuno avrebbe più dovuto vedere la filigrana argentata cangiante. Non io né gli altri bambini. Infatti, smisero presto di comprarle.
Qualche volta il vecchio se ne accorgeva e accennava una ramanzina poco convinta, alzando il palmo a rimprovero più verso se stesso che nei miei confronti. Non l’ha mai abbassato per picchiarmi, ma non significa che lo perdoni.
La scena mi è chiara come fosse accaduta ieri: la luce di una timida luna invernale filtra attraverso le tende della cameretta, dalla cucina proviene il gorgoglio della macchina da caffè, il sassofonista in pensione del piano di sopra si è appena alzato e strusciando disperato le ciabatte per casa chiama con insistenza il cane. Lo fa almeno quattro o cinque volte al giorno prima di realizzare che quel povero alano è morto almeno da una decina d’anni. Tra i due, l’animale è stato più fortunato.
Il mio vecchio è seduto a bordo del letto e parla sottovoce, forse sperando che non lo senta. Dice di sapere che non è il momento adatto, che sono mezzo addormentato e probabilmente non capirò molto del suo discorso, ma va bene così, in fondo non devo davvero capire. O ascoltare. Anzi, se al mio risveglio avrò dimenticato tutto tanto meglio. Non è insolito che il cervello faccia tabula rasa di ciò che avviene tra una fase e l’altra del sonno. Solo che, una volta terminata quella specie di confessione furtiva sulle sue condizioni di salute, esce dimenticandosi di accompagnare dietro di sé la porta della stanza.
Ho sempre avuto terrore delle porte aperte. Nel buio che occupa lo spazio socchiuso tra l’anta e il telaio s’insinuano i mostri dell’immaginazione.
E la mia coscienza va in allarme.
Mi sono alzato subito, per porre fine a quell’angosciante vacuità. Poi, ho avuto l’urgenza di andare in bagno. Dovevo camminare furtivo in corridoio, per non svegliare mia madre. Un ulteriore appello di concentrazione da rivolgere alla mia testa assonnata. Svuotato l’apparato urinario, è sopraggiunta la fame. Desiderio di assimilare zuccheri complessi.
Non sono mai tornato sotto le lenzuola. E il discorso ancora si affaccia con prepotenza nel sapore dei biscotti al cioccolato e nocciole quando mi capita di mangiarne.
Alle 4:57 di un martedì, nella solitudine di uno sgabello davanti alla penisola, sono diventato adulto.
Vorrei non averlo mai incontrato. Vorrei cancellarlo dalla memoria.
Da bambino vendevo i repack di figurine. Non io, mia madre. Era lei a gestire l’edicola. Il suo uomo, con cui avrei condiviso il cinquanta percento del patrimonio genetico e di cui lei non parlava, era sparito. Prima o dopo la mia nascita non saprei dire. Sembrava inesistente.
Sulle spalle della povera donna che mi aveva avuto in grembo pesava la gestione della casa, del negozio e delle mie necessità. A fine giornata le mancavano le energie per essere affettuosa, anche prima che le venisse diagnosticata quella malattia.
Allora, per invidia dei miei compagni che all’uscita di scuola passeggiavano coi propri papà, scartavo frenetico i pacchetti delle figurine, sceglievo i volti con la barba più vaporosa, i sorrisi più sinceri, gli occhi più espressivi, le biografie più interessanti, e li attaccavo ovunque nella cameretta. Quelli che non passavano la selezione li infilavo alla rinfusa dentro le buste, senza nemmeno chiuderli bene.
Mia madre, con pazienza, li sistemava, passava un po’ di colla sopra i lembi, con l’indice esercitava una leggera pressione, e li collocava nei box di vendita con la scritta Repack – Prezzo Speciale.
Tante briciole fanno un pezzo di pane, è una legge di mercato che i piccoli negozianti conoscono bene. Mentre a me, quei surrogati adesivi di paternità, non restituivano un intero.
Forse è per questo che ho scelto un mestiere del genere, dove colleziono le figurine degli altri.
E, ogni tanto, cedo alla tentazione dell’innesto, del repack.
Finora mi sono limitato ad aprire piccoli scorci alternativi nella mia memoria ma ultimamente ho il desiderio di andare oltre.
Vorrei conoscere l’uomo che non c’è stato.
Vorrei incontrare mio padre.
Non il genitore ideale che si scolla dopo pochi giorni dalla testiera del letto, dalla sedia o dall’album più volte calpestato sul pavimento, piuttosto un uomo buono che talvolta inciampi nell’essere papà, ma si sforzi sempre di restare padre.
Mi accontenterei di un rapporto impacciato, pieno di non detti, eppure più forte di qualsiasi adesivo.
Passerei ore insieme a lui, vendendo figurine nell’edicola.
Sì, è così che sarebbe dovuta andare. È così che andrà.
In archivio ho tutti i dati che mi servono.