Adriano Russo
SCUOIATURA
Papà mi ha portato nel bosco. Ha smesso da poco di piovere e l’erba è ancora bagnata, ma gli uccelli hanno ripreso a cantare quindi siamo al sicuro. Lasciamo l’auto e superiamo i primi alberi, i rametti a terra che scricchiolano sotto i nostri stivali. Gemma scodinzola: è la sua prima volta, e anche la mia.
«Ti piacerà» dice papà. «È stato il nonno a insegnarmi come fare, e a lui lo insegnò suo padre.» Indossa l’uniforme del lavoro, con i manici dei coltelli che sporgono dalle tasche, l’arco sulla spalla e quel buffo cappello con la visiera sollevata.
Io non lo so se mi piacerà. Non so nemmeno cosa andiamo a fare, in mezzo al bosco. So solo che mamma non vuole, ed è un motivo sufficiente per andare.
Qualcosa si muove fra le chiome: uno scoiattolo. Ci osserva, le zampe che artigliano una ghianda e i denti scoperti. Emette un verso che somiglia a un sibilo.
«Non fissarlo» dice papà. «Lo farai innervosire. Ricordi cos’è successo l’altra sera?»
Certo che lo ricordo. Scosto la manica e sfioro la garza che copre i segni del morso; il braccio prude, ma ha smesso di far male.
Gemma rizza il collo, una zampa sollevata e il muso immobile.
Papà si china. «Ha fiutato una preda.»
Ci spostiamo tra i cespugli. Conosco queste bacche, papà le sparge intorno a casa dopo il lavoro. Non sono da mangiare, tengono lontani i cervi. Una volta li ho osservati: si limitano ad annusarle, poi corrono via e non tornano per almeno un altro giorno. Ai miei non l’ho mai detto, ma i loro occhi mi fanno paura.
Il terreno è in discesa, oltre i cespugli, fino a un ruscello così stretto che persino io potrei saltarlo senza bagnarmi. Ci avviciniamo con cautela, Gemma davanti, papà nel mezzo e io per ultimo.
Una creatura dal pelo grigio è distesa accanto a un tronco caduto. Un lupo. Scorrazzano spesso per le strade della città, e la scuola ne tiene un paio nelle gabbie per le esercitazioni in palestra. Questo sembra malato: fa respiri brevi, gonfiando e sgonfiando il petto, e agita una zampa in continuazione.
«Povera bestia» dice papà. Le carezza la nuca, poi scosta il pelo rivelando una chiazza rossastra e il lupo emette un lungo lamento.
Papà estrae un coltello dalla tasca. So cosa vuole fare, così mi volto dall’altra parte.
Lui mi colpisce. «Sei un bimbetto?» domanda.
Scuoto la testa.
«Allora osserva.» Avvicina la lama al collo del lupo, poi si ferma. «Anzi, dammi la mano.»
«Papà…»
«La mano» insiste. Mi afferra il braccio e mi fa stringere le dita intorno al manico del coltello. «Adesso spingi.»
Il lupo ha piegato il muso e mi fissa. Sta soffrendo.
«Spingi» ripete papà.
Non posso farlo. È una creatura buona. Dobbiamo aiutarla.
«Spingi!»
Faccio pressione. La lama penetra nella carne, scivola quasi da sola. Il lupo emette un guaito e io strizzo le palpebre mentre affondo il coltello più in profondità. Quando lascio il manico, il lupo è già morto.
Papà mi dà un altro schiaffo. «Hai chiuso gli occhi.»
Recupera il coltello e tende la lama a Gemma, che lecca via il sangue per poi avventarsi sul cadavere. Ama la carne di lupo. Quando finisce di mangiare, ci alziamo e percorriamo il ruscello in direzione opposta rispetto al flusso.
Mi guardo le dita sporche. «È questa la scuoiazione?» chiedo a papà.
«Scuoiatura. No, questo è avere pietà.» Solleva la mano e istintivamente mi tiro indietro, ma lui si limita ad arruffarmi i capelli. «Scuoiare significa separare la pelle dal resto del corpo.»
«Al lupo non l’hai separata.»
«Con la sua pelliccia ci facciamo al massimo una cena. Con quella che cerco possiamo camparci un mese.»
Mi domando di quale creatura si tratti. Dev’essere molto grossa, o rara, o entrambe le cose. Una volta a scuola è entrato un procione. È riuscito ad azzannare la gamba dell’insegnante prima di essere abbattuto; poi abbiamo festeggiato e l’abbiamo mangiato, ma sul momento mi sono preso un bello spavento. Spero che non stiamo cercando un procione.
Papà mi tappa la bocca e mi trascina accanto a sé, dietro a un albero. «Fa’ silenzio» sussurra. Anche Gemma si acquieta e si distende fra le foglie cadute.
Allungo il collo, cercando di osservare oltre la corteccia. Lì, in mezzo a una radura, individuo due cervi. Alti, belli, con grossi palchi nodosi e occhi neri come la notte. Sento i battiti del mio cuore in gola.
«Papà, sono…»
«Calmo» dice papà. «Tra poco andranno via.»
Un cervo gira il muso verso di noi. Mi ha visto. Deve avermi visto. Non può non averlo fatto. Scopre i denti, mostrando degli incisivi affilati e lunghi. La sua lingua triforcuta schiocca, richiamando l’attenzione dell’altro.
«Chiudi gli occhi e trattieni il respiro» dice papà.
Non ci riesco. Continuo a fissarli mentre avanzano nella nostra direzione, il fumo denso che esce dalle loro narici scheletriche. E allora ricordo perché i loro occhi mi terrorizzano: sono orbite vuote, buchi in grado di scavarti nel profondo. Credo di essermela fatta sotto.
Un gatto selvatico sfreccia fra l’erba; alle sue spalle, all’inseguimento, c’è uno scoiattolo, forse lo stesso di prima. I cervi li vedono e corrono dietro di loro e di lì a poco siamo di nuovo da soli. Io, Gemma, mio padre e i miei calzoncini appiccicati alle gambe.
Mi aspetto un rimprovero, invece mio padre sogghigna. Anche lui ha i pantaloni bagnati. Mi dà una pacca sulle spalle tanto forte da farmi perdere l’equilibrio. «Andiamo, il lavoro ci aspetta.»
Ci mettiamo poco a trovare l’edificio: una vecchia capanna col tetto crollato e le finestre rotte. Sembra disabitata, ma da dentro provengono parole e risate.
«Eccoci» sussurra papà. «Adesso dovrai dimostrarmi che sei pronto. Niente esitazioni.»
Rimanendo al sicuro tra gli arbusti raggiungiamo il recinto sul retro, costruito con vecchie assi e pezzi della stessa capanna; fra le fessure del legno qualcuno ha infilato i rametti delle bacche per i cervi. Da un albero all’interno del recinto pendono due corde legate a un copertone, su cui un bambino si dondola mentre un uomo lo spinge da dietro.
«Chi sono?» chiedo a papà.
«Osserva bene.»
Vedo altri due bambini, una ragazza e una donna. Ma certo: sono gli scarti, quelli venuti male, che da noi non possono stare. Sono difettosi, senza pelliccia né coda e con le orecchie tonde. A scuola insegnano che li abbiamo creati per errore, ma secondo mamma è una bugia: siamo noi a derivare da loro. Non conosco la verità, ma a me non paiono così diversi da noi.
Papà prepara l’arco. Prende una freccia e tende la corda, puntando l’arma verso il bambino sul copertone.
«Che stai facendo?» gli domando.
Lui mi fissa soltanto per un istante, poi torna a mirare. Ho capito: sono loro le nostre prede.
Lo spingo proprio mentre lui scocca la freccia, che manca per un soffio la testa del bambino e si conficca nel copertone. Il bambino scende, mentre la donna e la ragazza portano gli altri due piccoli dentro la capanna.
Papà mi tira per i capelli, facendomi cadere, poi supera il recinto con un balzo, Gemma dietro di lui. Cerco di seguirli, ma rimango dietro le assi storte.
L’uomo prende in braccio il bambino del copertone e corre verso la capanna, ma papà si mette in mezzo e gli punta contro il coltello. «È mio» dice.
«Perché?» domanda l’uomo. «Lasciateci in pace! Non vi basta averci strappato le nostre case?»
«Non è colpa mia se siete quello che siete.»
La donna è uscita dal capanno; anche lei ha un coltello. Papà non l’ha vista e nemmeno Gemma, che continua a ringhiare all’uomo. Lo ucciderà. Ucciderà il mio papà!
Raccolgo un sasso e lo scaglio verso di lei. La colpisco in faccia, facendole sanguinare le labbra, poi papà si volta e affonda il coltello nel suo stomaco.
L’uomo col bambino si avvicina a loro, ma Gemma ringhia più forte e abbaia. Scavalco il recinto e, quando l’uomo mi dà un pugno, mi aggrappo alla gamba del bambino e lo porto giù con me. Lo tengo stretto mentre cadiamo, anche se lui si agita e scalcia.
Papà si frappone tra noi e l’uomo, le braccia allargate.
«Luca!» urla l’uomo.
Il bambino reagisce mordendomi, ma io non lo lascio, così inizia a singhiozzare come facevo io da piccolo. «Aiutami, papà!»
«Prendiamo lui e la donna» dice mio padre. «Voi potete andare.»
L’uomo non risponde e sposta lo sguardo dal bambino a mio padre e Gemma e viceversa, poi tende la mano verso di noi. «Io…»
Mio padre scuote la testa. «Vattene.»
L’uomo tentenna un ultimo istante, si volta e corre verso la capanna. Sento altre grida provenire dall’interno, quindi passi sempre più lontani.
Papà si china e stringe al petto il bambino, che non smette di strillare. «Va tutto bene» gli dice. «Sei al sicuro.» Il bambino lo abbraccia e le lacrime bagnano la sua uniforme.
Mi alzo e afferro il coltello che papà ha allungato verso di me. So cosa devo fare. Non ho altra scelta. Il bambino è soltanto un lupo, il suo pianto è un mugolio. Sta soffrendo, e io posso porre fine alla sua sofferenza.
Avvicino la lama al suo collo; quando lo sfioro il bambino ha un sussulto, ma io non mi fermo. Il coltello perfora la pelle e penetra nella carne, sempre più giù. Dopo un secondo sussulto, il piccolo smette di gemere, le braccia scivolano ai fianchi e la testa pende di lato.
Papà lo adagia in terra, poi appoggia una mano sulla mia spalla. «Sei stato bravo.»
Spoglio il bambino mentre lui si occupa della donna. Il suo ombelico è ben visibile, senza la pelliccia, e possiede soltanto due capezzoli; forse è questo il motivo per cui noi siamo noi e loro sono gli scarti. Il sangue continua a uscire dalla ferita sul collo, anche se meno di prima. Poggio la lingua sulla lama sporca, come ha fatto Gemma: è un po’ salato e sa di metallo.
Papà mi spiega come tagliare. «Alcune parti sono delicate ed è meglio lasciarle intatte. Questo è un ottimo punto.» Mi mostra la differenza tra i vari coltelli e come infilare gli aghi fra le costole, poi mi lascia fare da solo e torna dalla donna. Adesso che non mi guarda posso smettere di trattenere le lacrime.
La testa del bambino è la parte più difficile. Gli occhi spalancati fissano il cielo e non sbatte mai le palpebre, né trema mentre separo la pelle o piange quando trancio le orecchie.
«Valgono una fortuna» dice papà.
Il sangue mi schizza sul viso, ma mi pulisco col braccio e continuo il lavoro. Più vado avanti e più diventa semplice; mi viene quasi naturale. Dopo la pelle ci occupiamo della carne che porteremo alla mamma, così che possa macellarla. Alla fine siamo entrambi sporchi dalla testa ai piedi.
Papà raccoglie tutto dentro un retino. Prima di metterselo sulle spalle, stacca un boccone di carne e me lo passa. «Mangia.»
Avvicino il boccone alle labbra. È molle e pregno di sangue. Anche la mia carne puzza così?
«Non farmi arrabbiare» dice papà.
Mordo il boccone. È viscido e ha lo stesso retrogusto che ho sentito prima sulla lama. C’è qualcos’altro, però. Un sapore nuovo, che infiamma il mio stomaco. Do un altro morso e un altro ancora, poi mi lecco le dita.
Papà ne dà un pezzo anche a Gemma, che ha iniziato a lamentarsi, e insieme usciamo dal recinto. Mentre torniamo all’auto non incontriamo altri scarti, men che meno cervi affamati. Papà appende il retino gocciolante fra i sedili posteriori, accanto a Gemma, e si mette alla guida.
Io stacco un altro boccone di carne prima di infilare la cintura. «Quando lo rifacciamo?» domando.