L’ecopoesia di Mary Oliver

I canti dei cani e l’anima del formichiere

di Paola Loreto

Mi sono imbattuta nella poesia di Mary Oliver (1935-2019) più di una decina di anni fa, quando ho cominciato a interessarmi di ecopoetry. Possiamo correttamente tradurre il termine con “ecopoesia” e utilizzarlo per indicare molta poesia che è stata scritta e viene scritta oggi in tutto il mondo, ma l’idea di distinguere una ecopoetry da quella poesia della natura che si scrive, altrettanto in tutto il mondo e da millenni, è americana. Ed è negli Stati Uniti, all’inizio del nuovo millennio, che si compie una sintesi dei tentativi di definire una “ecopoesia”, facendola risalire ad alcuni poeti – o, meglio, ad alcune poesie – moderniste. Il nuovo modo di pensare il rapporto tra il soggetto umano e gli altri elementi della natura è forse incarnato al meglio da L’uomo di neve di Wallace Stevens (1921), che riesce a guardare il gelo e i rami dei pini incrostati di neve senza provare alcuna tristezza perché, essendo una creatura ibrida che partecipa di entrambe le nature umana e nonumana, ha “una mente d’inverno” e riesce a vedere davvero solo quello che ha davanti, che è nulla, e a non vedere nulla che non sia lì. È la fine della pathetic fallacy romantica, come la definì John Ruskin, che proiettava sul paesaggio i sentimenti del poeta, abituato a considerare la natura come materiale duttile, da modellare per i suoi versi. Ed è l’inizio della autonomia della natura, che nella visione del filosofo norvegese Arne Naess (1912-2009) assumerà finalmente un valore intrinseco. Una vera e propria rivoluzione copernicana del pensiero occidentale, di cui si sta ormai diffondendo la coscienza grazie alla “svolta postumana” portata avanti da varie discipline del sapere, inclusa la teoria letteraria. Il soggetto umano viene spostato dal centro dell’universo e ricollocato al suo posto, insieme agli “altri della terra”, come li ha poeticamente chiamati Rosi Braidotti, dei quali viene riconosciuta la “capacità di agire” e le inevitabili reti di relazioni che intessono, insieme a noi, nell’ecosistema Gaia.

Mary Oliver non aveva bisogno di tutta questa “teoria”, anche se nella sua poesia ne ha anticipata tanta, e basti pensare alle forme di linguaggio animale che rappresenta, letteralmente e figurativamente, nelle sue “poesie/canti dei cani” (Dog Songs, 2013). Quando ho cominciato a tradurla con i miei studenti per una Maratona poetica con cui il dipartimento di Lingue dell’università di Milano partecipò a una delle prime edizioni di BookCity, ci accorgemmo di quanto profondo fosse il suo pensiero al di sotto di una dizione apparentemente semplice. Una poesia di Mary Oliver inizia tipicamente allo stesso modo di una poesia romantica: con un’osservazione attenta di un dettaglio naturale, che descrive accuratamente. Ma la morale che ne deriva devia sempre dalle conclusioni che ci si aspetterebbe dalla poesia della natura, che prende le mosse dal paesaggio per riflettere sull’uomo e le sue preoccupazioni esistenziali o metafisiche. E finisce col trarne di poco ortodosse, come per esempio l’ipotesi che il formichiere abbia un’anima, che il fetore del cavolo di palude sia grazioso, che sarebbe bello trasformarsi in un pesce e scorrere tra le fibre luminose della vegetazione di un fondale marino. O che si può rapinare un favo di miele in un albero come un orso, ingoiandolo insieme alle api, perché la fame è un istinto sacro, anche quando spinge a dare la morte, come negli uccelli da preda, e i cinque “fiumi” che ci scorrono nel corpo – i sensi – sono la fonte della nostra saggezza, oltre che della nostra conoscenza. Come recita I prugni, la gioia è in primo luogo un sapore nella bocca e la felicità va prima mangiata per poterla assaporare nella coscienza.

Ho scelto, quindi, di tradurre American Primitive perché è forse l’emblema della poesia di Oliver, che infatti, l’anno dopo la sua uscita, nel 1983, per la Little Brown and Company di Boston, le valse il premio Pulitzer, uno dei massimi riconoscimenti letterari americani. Il libro celebra l’abbandono dionisiaco all’eccesso della fame, della gola e del desiderio. La poeta esulta per l’immersione nella proliferazione disordinata e incontrollabile della natura, che è materia magmatica e metamorfica, organica e inorganica, mota e fango, come in Attraversando la palude, e se ne appropria a piene mani, cantando sensazioni fisiche primordiali (L’albero del miele) e mettendo in scena la metamorfosi a doppio senso del nonumano in umano e dell’umano nel nonumano: una cerva che è “la donna più bella che abbia mai visto”; sé stessa come un orso che si pigia le more mature dell’estate nella bocca con una grossa zampa, e con una lingua “felice” (Agosto).

Nata in Ohio, dove trascorse la prima parte della sua vita fino alla giovinezza, incontrò quella che sarebbe diventata la compagna di una vita, la fotografa Molly Malone Cook, nella casa della poeta Edna St. Vincent Millay, mentre la visitava. Fu un colpo di fulmine, come racconterà in Our World, il libro autobiografico sulla vita della coppia a Provincetown, in cui intreccia le sue parole alle fotografie di Molly. Insieme si trasferirono presto nella cittadina sul Cape, che allora era ancora popolata da pescatori e artisti, “alla convergenza di terra e acqua, di luce mediterranea”. Per cinquant’anni, percorse le foreste della zona più selvaggia del Cape come aveva percorso quelle dell’Ohio, osservando la natura e scrivendo poesia. Ma Primitivo americano è una riflessione non solo sulla wilderness americana ma anche sulla wildness dell’uomo che la abita: il paesaggio storico, esteriore, selvatico e primitivo del paese risuona nell’interiorità selvaggia, indomita del soggetto lirico, che vi aderisce. Vi trovano luogo sia il mondo naturale sia l’uomo e la sua storia, con i loro cicli stagionali fisici e spirituali di morte e rinascita, di dolore e rigenerazione, di offesa e riconciliazione. E i miti di una nazione vengono rivisitati ricordando le perdite su entrambi i fronti dei nativi – nella poesia sul capo Shawnee Tecumseh, Stella Cadente, che difese l’Ohio per vent’anni a cavallo tra il Sette e l’Ottocento – e dei pionieri inglesi, che in I bambini smarriti lamentano la scomparsa della piccola Lydia Osborn, di undici anni, e il rapimento, a nove anni, da parte dei Wyandot, di Isaac Zane, che sposerà Myeerah, la “Gru Bianca”.

Alla vicinanza ai contenuti della poesia di Mary Oliver, in cui ho riconosciuto la mia esperienza del mondo naturale, si è sommata la sintonia con il suo stile poetico, caratterizzato da un registro colloquiale e da una apparente accessibilità che ha fatto torcere il naso a una certa critica elitaria ma ha conquistato la massa dei lettori, tanto da fare dei suoi libri dei bestseller di poesia: un bel concetto a cui pensare nel mercato editoriale italiano. In un piccolo manifesto di poetica, Oliver ha dichiarato: “Voglio fare delle poesie che dicono chiaro e semplice / quello che intendo, che non se ne vanno in giro in cerca dei / pizzi dell’elaborazione… Voglio / stare vicina a parole come / pesante, cuore, gioia, presto” (Everything). È l’adesione al plain style di una lunga tradizione di scrittori americani: lo stile “piano”, semplice, volto a comunicare, che nacque come strumento necessario a realizzare l’utopia puritana nel Nuovo Mondo. Nei migliori poeti, come Robert Frost, consente più livelli di lettura e attiva un lavoro di interpretazione di significati profondi, nutriti da un pensiero filosofico intuitivo e originale. Tradurre questo linguaggio, la cui prosodia si regge, come quella di William Carlos Williams (nelle parole di Cristina Campo), sulla “folle e delicata linea della sintassi” è stato un compito che sapevo di poter accogliere e sostenere. Mi è familiare, infatti, la tenue melodia di una voce che corre naturalmente lungo la direzione verticale dei versi, intessendo l’intonazione in una prosodia che suona spontanea grazie a un sapiente lavoro di cesello. Ascoltando la voce poetica di Mary Oliver risuonare nella mia non ho voluto però mai appropriarmene, perché la traduzione è un compito etico, che serve ad accompagnare un testo letterario nella cultura di arrivo senza tradirne le intenzioni, che nel caso della ecopoesia di Mary Oliver sono inequivocabili: nominare un mondo per farlo esistere, anche quando è scomodo, nella nostra coscienza, come nella Poesia del freddo:

Forse quello che il freddo è, è il tempo
in cui misuriamo l’amore che abbiamo sempre avuto, segretamente,
per le nostre ossa, l’amore duro, affilato come un coltello
per il caldo fiume dell’io, oltre ogni cosa; forse
questo è quello che significa la bellezza
dello squalo blu che fila verso le capriole delle foche.

paola.loreto@unimi.it
P. Loreto insegna letteratura angloamericana all’Università di Milano