Fatti in casa: Hannah Lowe, The Kids

Un sogno divertente che può finire

di Silvia Albertazzi

Hannah Lowe
The Kids. L’arte di insegnare
ed. orig. 2021, a cura di Pietro Deandrea,
pp. 171, € 15,
Interno Poesia, Latiano (BR) 2024

Biondissima, carnagione chiara e occhi verdi, Hannah Lowe non rientra certo nello stereotipo somatico della Black Asian con cui le sue origini – madre inglese, padre “mezzo giamaicano, mezzo cinese” – tenderebbero a identificarla. Poetessa di pregio, nelle sue raccolte ha esplorato la propria difficile appartenenza identitaria, complicata dal confronto con l’inconsueta occupazione del padre, giocatore d’azzardo professionista, una figura che torna con insistenza in tutta la sua produzione, e il cui ricordo apre anche la raccolta The Kids. “Mio padre era morto”, sono infatti le prime parole della prima poesia, Il cane bianco, che termina ribadendo “Lui era morto, era morto”; e chiude ponendo la questione, “Che dovrei fare ora?”: una domanda che troverà risposta, come si evince dalle composizioni seguenti, dedicate al mondo della scuola, nell’abbandono del lavoro di ufficio per occuparsi dell’insegnamento. È, la sua, una scelta d’impegno, che la porta a lavorare negli istituti secondari multiculturali londinesi, tra ragazzi di ogni provenienza, per lo più figli di immigrati, che ora “si portano addosso” un greve “bagaglio di speranze”, ora, di anno in anno, tornano “a ripetere quello per cui li avevano respinti”. Monique, “l’Ape Regina”, Asif che si lamenta della croce di San Giorgio sul tetto dei vicini, Bobbi Bonniwell con le sue gonne troppo corte, Janine che s’attorciglia un ricciolo attorno al dito medio, e scruta il volto della prof alla ricerca di segni di nerezza, ma anche Johnny, l’ “unico ragazzo inglese” della classe, e Dwayne il graffitaro, o Luke, Amal, Eliot e Martha: “i dispersi”, di cui non si sa più nulla, sono creature di carne e sangue, vive e pulsanti, come raramente è dato trovare in poesia.

Bene ha fatto il curatore, Pietro Deandrea, a sottotitolare la raccolta L’arte di insegnare, perché i sonetti sull’insegnamento sono decisamente i migliori e i più originali del volume in cui, nella seconda parte, da docente Lowe ritorna studentessa, e ripercorre i bullismi e le angherie perpetrate dai suoi insegnanti, ma anche i primi amori, le trasgressioni della tarda adolescenza, la perdita dei genitori, per arrivare infine alla maternità “come un’altra forma di insegnamento, altrettanto imperfetta”, secondo le parole di Deandrea nella sua illuminante postfazione. Sono, in effetti, i tre sonetti che recano il titolo L’arte di insegnare non solo a dettare il tono dell’intera raccolta, ma anche e soprattutto a enfatizzare come l’insegnamento più che un mestiere o un’abilità sia un talento che va conquistato giorno per giorno e che non si finisce mai di imparare. La docente Hannah Lowe dovrà comprendere che “l’arte di insegnare non / era avere tutti gli occhi su di me, ma l’uno per l’altro”; dovrà riuscire a contenere l’ansia che le tiene “in funzione la bocca / come un rubinetto in piena”; fare i conti con “La noia (che) incombe sull’aula come una nuvola pesante”, da cui “scuotere i ragazzini” con mille stratagemmi.

A esergo della postfazione, Deandrea ha posto un brano dal memoir di Kate Clanchy dal significativo titolo Some Kids I Taught and What They Taught Me; a me le poesie di Hannah Lowe hanno riportato alla mente, invece, quelle di un poeta insegnante italiano, Claudio Lolli che, nella sua raccolta del 2004, Rumore rosa, riflettendo sui “troppi ragazzi a cui non so se dire / che conoscere è un sogno divertente / che può finire”, evocava il modo di insegnare delle “brave professoresse” nello stesso modo in cui Lowe ricorda il suo metodo iniziale sbagliato di affrontare la classe: “sedevo alla cattedra e parlavo e parlavo / come un’annunciatrice folle, con loro a ritrarsi / per noia o orrore, e un viso alla volta s’appannava”, si legge nel primo sonetto dell’Arte di insegnare. Tra gli espedienti usati da Hannah Lowe per sconfiggere la noia degli adolescenti occupa un posto di rilievo la mappatura del loro gergo: “Scrivi un glossario e intitolalo / Inglese multiculturale di Londra”, consiglia a se stessa, e nelle sue poesie più volte riproduce il modo di parlare delle sue classi, non abbandonando mai il tono colloquiale che, come recita la motivazione del Costa Book Award vinto da The Kids nel 2021, trasmette la sensazione “che qualcuno ti stia parlando direttamente”.

silvia.albertazzi@unibo.it
S. Albertazzi è docente Alma Mater dell’Università di Bologna