Una storia di fantasmi dietro a una storia di mare. Intervista a Luigi Guarnieri

Esplorazione sfortunata con musa visionaria

Intervista a Luigi Guarnieri di Camilla Valletti

Dopo il racconto di molte vite ben dentro il canone letterario, Foscolo, Conrad, Lucia Joyce, e musicale, Johannes Brahms, come mai ha scelto di ripercorrere la carriera del capitano Franklin? Quale è la sua vena di follia?

Al centro del libro c’è il tema universale dell’ambizione, della ricerca della gloria – che spesso e volentieri, come sappiamo, finiscono per sconfinare nella follia. Come sarebbe stato per la corsa alla luna nella seconda metà del Novecento, un secolo prima impazzava la caccia al passaggio a nordovest, seguita subito dopo dai tentativi di raggiungere il Polo Nord in nave. E questo significava addentrarsi in territori sconosciuti, non ancora mappati sulle carte, inospitali e climaticamente estremi – veri e propri viaggi verso il nulla. Tra i grandi capitani della sua epoca, John Franklin è stato uno dei più coraggiosi e determinati, anche se il suo fisico e il suo carattere non lo rendevano particolarmente adatto alle spedizioni nell’Artico. In apparenza era pacato e riflessivo, ma in realtà di un’ambizione divorante – c’era del metodo, nella sua follia.

Filippo Tuena ha scritto un romanzo molto metaforico sulla spedizione fallimentare di Robert Falcon Scott in Antartide. A lui interessava capire le ragioni profonde di quel fallimento tanto da renderlo universale. Nel suo nuovo lavoro, lei sembra privilegiare il gusto per l’avventura, per il resoconto puntuale delle spedizioni che si avvicendarono alla ricerca della due navi scomparse. È così si nasconde o dietro qualche elemento più misterioso?

Questo libro si basa su una ricostruzione minuziosa ma molto personale degli eventi, e dunque su un lungo lavoro di rilettura e interpretazione delle fonti, molte delle quali formate dai meticolosi diari dei sopravvissuti. L’attenzione al dettaglio, anche minimo, è massima, così come l’analisi e il tratteggio dei caratteri dei personaggi. Siamo perciò su un piano quasi di iperrealismo, quanto di più lontano dalla metafora, dal racconto astratto e/o allusivo.

Un personaggio laterale ma fondamentale per lo sviluppo della vicenda è la figura della moglie di Stanley, colei che finanziò gran parte delle spedizioni inviate alla ricerca delle due flotte in Antartide. Questa donna non si perse mai d’animo, cosa la guidava?

Sarebbe fin troppo scontato dire che era Lady Jane Franklin a portare i pantaloni in casa del celebre esploratore. Ma in effetti Jane Griffin è stata la musa e l’ispiratrice del marito, un angelo custode volitivo e instancabile, una nobildonna dalla volontà di ferro che non si è mai rassegnata alla morte dell’illustre coniuge ed è riuscita a far spendere al recalcitrante Ammiragliato britannico cifre colossali in decine di fallimentari spedizioni di soccorso alla ricerca di uomini che tutti sapevano già morti. Una delle figure femminili più possenti dell’Ottocento, un esempio quasi visionario di tenacia, sacrificio, capacità pratiche e incrollabile dedizione.

Nel suo romanzo, il freddo, ovvero le condizioni del tutto inospitali dei luoghi toccati dai marinai, è la condizione alla quale nessuno può sottrarsi. Solo la popolazione inuit conosce le tecniche e la capacità di adeguarsi ad un ambiente tanto estremo, come lei racconta nella seconda parte del suo libro. Perché gli inglesi testardamente non seguirono mai le loro direttive, perché, insomma, non impararono la lezione?

Gli Inuit (gli Uomini, il Popolo), ovvero gli ex eschimesi, costituiscono il coro tragico di questa storia. Cultura millenaria rimasta sempre ai margini della civiltà occidentale, quella degli Inuit è una storia di fiera indipendenza, stoiche capacità di sopravvivenza, attaccamento ai riti ancestrali e sottili strategie di difesa. Considerati poco più che selvaggi dai britannici vittoriani, sono stati rivelati al mondo dai diari del capitano statunitense Charles Francis Hall, che ha avuto l’intelligenza e la lungimiranza di vivere per dieci anni insieme a loro, raccontandone usi, costumi e tradizioni. Contraddistinti da una concezione del tempo e dello spazio molto diverse da quelle degli occidentali, si sono dimostrati però singolarmente precisi nei loro racconti orali, tanto da fornire infine una delle chiavi del mistero (la posizione esatta dei relitti dell’Erebus e della Terror). Tranne Hall, l’esploratore scozzese John Rae e in parte il capitano irlandese Francis Crozier, sorprendentemente nessuno degli altri capitani britannici capì che per sopravvivere nell’Artico bisognava seguire le tattiche degli Inuit: carne fresca cruda contro lo scorbuto, vestiario in pelle di animale, costruzione giornaliera di igloo al posto delle semplici tende, cani addestrati a trainare slitte per spostarsi. Mai riconosciuti ufficialmente fino alla seconda metà del Novecento, oggi amministrano un territorio autonomo nel Canada settentrionale, il Nunavut. Se i condottieri delle tante spedizioni di soccorso alla ricerca di Franklin avessero avuto l’umiltà di seguire il loro esempio, i morti sul campo si sarebbero ridotti drasticamente e moltissimi, invece di darsi al cannibalismo, sarebbero tornati a casa sani e salvi.

di Francesca Serra

Luigi Guarnieri
Le navi perdute del capitano Franklin
pp. 316, € 21,
Einaudi, Torino 2024

Cosa succede se dopo una trentina di pagine di un libro che ne contiene più di trecento, il protagonista con il suo corteo di navi, marinai, riserve di cibo, libri, sogni, speranze viene inghiottito nel nulla? Se quindi il soggetto stesso del libro, non appena iniziamo a leggerlo, scompare? Ebbene, quel che succede è che arriva Luigi Guarnieri, autore sofisticato di una decina di romanzi, e ci pensa lui. Ci pensa lui a farci navigare in questo grande vuoto. Ci pensano lui e la letteratura. A p. 31 di questo libro si legge: “Poi l’Erebus e la Terror svanirono nel canale di Lancaster e nessuno ne seppe più nulla”. E dopo aver letto questa frase, viene naturale chiedersi in che modo avanzerà la narrazione del libro che abbiamo tra le mani. Se nessuno ha più visto il capitano Franklin con le sue due imbarcazioni – chiamate Erebus e Terror – , se nessuno ha saputo più nulla di lui e della sua spedizione, di cosa parlerà questo libro che s’intitola Le navi perdute del capitano Franklin? In effetti, il libro è sufficientemente lungo da persuaderci che parlerà di molte cose. Prima di tutto di ciò che non c’è. Il mito del passaggio a nord-ovest, alla ricerca di un punto tra i ghiacci che permettesse di circumnavigare il continente americano dall’alto, è uno dei grandi miti nautici che ha ossessionato l’Europa per diversi secoli. Suscitando grandi speranze  e paure altrettanti grandi. Soprattutto quella che nessuno riuscisse nell’impresa. Insieme a quella, non meno paradossale e tragica, che in realtà non ci fosse nulla da scoprire. Si tratta di un mito rovesciato da almeno tre punti di vista. Quello di Magellano, che molto tempo prima aveva trovato il valico che permetteva di circumnavigare le cosiddette Americhe dal basso. Mentre qui si cerca lo stesso passaggio, però nel polo opposto. Ma rovesciato è anche rispetto all’impresa di Colombo, che cercava disperatamente la fine dell’acqua e l’inizio della terra. Mentre coloro che partono alla ricerca del passaggio di nordovest cercano il contrario: vale a dire un punto in cui non ci sia più né terra né ghiaccio, ma piuttosto il mare e l’acqua che li facciano scivolare dall’altra parte. Oltre a questo, il mito è rovesciato anche rispetto al successo dell’impresa. Colombo e Magellano scoprono quello che c’era da scoprire, per quanto entrambi persi nei loro ingannevoli miraggi. Mentre John Franklin non scopre assolutamente nulla. Se non cosa sia la morte. E allora che senso ha raccontare la sua fallimentare vicenda? Per quali strane vie il capitano di una delle spedizioni navali più disastrose nella rocambolesca storia delle imprese marinare è diventato un eroe? Fino a p. 31 di questo libro, è facile credere che Guarnieri si sia dedicato alla scrittura di un ennesimo esempio di quella che gli anglofoni chiamano nautical fiction. Uno dei generi fondanti della letteratura occidentale, da Omero in poi. Oggi tendiamo a dimenticarci quanto gli spostamenti per mare abbiano impregnato la vita quotidiana e quindi l’immaginario di un’umanità che per molto tempo ha conosciuto soltanto tre principali mezzi di locomozione: i piedi, i cavalli e le navi. Ma una lunga lista di memorabili libri, da Robinson Crusoe al Vecchio e il mare, passando per Moby Dick, sta lì a ricordarcelo. Il racconto dell’impresa del capitano Franklin non può che rievocare questa lunga tradizione. Se non fosse che a partire da p. 32, il libro che dovrebbe narrare le disavventure di una celebre e drammatica spedizione per nave si rivela in realtà essere qualcos’altro. Fino alla pagina precedente potremmo definirlo una nautical fiction, dopo dovremmo ammettere che si tratta in realtà di una ghost story. Certo, il libro racconta la tragica storia del viaggio di John Franklin e dei suoi marinai alla ricerca del passaggio a nordovest. Ma soprattutto quello che questo libro racconta è una storia di fantasmi. Come se tutti quelli che si incamminano alla ricerca del famoso passaggio fossero già morti. Del resto anche l’Ulisse raccontato da Dante, non appena attraversa le colonne d’Ercole con i suoi compagni, non è già un morto vivente? Senza dimenticare che la storia di uno dei più celebri morti viventi della letteratura di tutti i tempi, scritta da Mary Shelley un quarto di secolo prima che Franklin partisse per la sua impresa nel 1845, comincia proprio con le lettere di un capitano che naviga verso il polo Nord. Il quale incontra sia il dottor Frankenstein che la sua mostruosa creatura, mentre si rincorrono nel bianco abbagliante dei ghiacci. Un paesaggio che ha la duplice capacità di cancellare le tracce nel nulla e di renderle più evidenti, grazie a quello stesso nulla che le mette in risalto. Approfittando di tale ennesimo paradosso, il libro di Guarnieri, che all’inizio sembrava essere una nautical fiction, ma che in seguito si rivela piuttosto una ghost story, slitta infine verso una terza, fondamentale trasformazione. Via via che le vicende di una moltitudine di personaggi sfilano sotto i nostri occhi ci accorgiamo, infatti, che l’intera macchina narrativa costruita intorno al tema della ricerca di qualcosa che non si conosce, o di qualcosa che si è perduto, si basa sul principio del racconto indiziario. Sapere interpretare le tracce, ecco cosa rende possibile la sopravvivenza. E la letteratura. Un esercizio estremo, come estreme sono le terre in cui Franklin e le sue navi si perdono, che proprio a causa di questa sua natura straordinaria rischia sempre il fallimento, dovendosi fare largo in mezzo a grandi scogli e altrettante, furiose, tensioni. Quella tra umano e non umano, in primis. Tra mondo e oltremondo. Tra civiltà ed estraneità. Alla fine del libro, la narrazione si arrotola su sé stessa, tornando al suo inizio e mordendosi la coda. Come un animale che abbia finito di correre dappertutto e si accucci per trovare pace. Le navi di Franklin sono state rinvenute. Erano in fondo al mare, come si poteva facilmente indovinare. La ricerca era difficile e nello stesso tempo facilissima. Bastava, forse, saper camminare sul filo molto sottile che unisce la realtà alla finzione. Avendo fiducia nell’abilità di Guarnieri, che tra gli scrittori italiani è uno dei pochi funamboli capaci di rimanere in equilibrio su quello stupefacente filo, senza mai cadere.

francesca.serrra@unige.ch
F. Serra insegna letteratura italiana all’Università di Ginevra