dal numero di gennaio-febbraio 1985
Non mi stupisce che Sebastiano Vassalli, tredici anni fa, quando si innamorò del “poeta-fanciullo” Dino Campana, abbia scelto Daniele Ponchiroli e Franco Basaglia come le persone con le quali confidarsi e confrontarsi. Daniele Ponchiroli era molto di più di un uomo di cultura: era un uomo di un’intelligenza e di una sensibilità più uniche che rare, pari soltanto alla sua grande modestia. Era un giusto, era l’anima nobile della casa editrice Einaudi.
Ma veniamo al libro, a La notte della cometa, a questo racconto-verità che ti coinvolge e ti costringe a soffrire e riflettere, perché è di un’attualità sconvolgente. La “storia di vita” di Dino Campana inizia nel 1885 e si conclude nel 1932. Ma è una storia di ieri e di oggi, è una storia che si ripete in questa nostra società solo apparentemente meno dura e meno distratta che nel passato. Quanti sono i Dino Campana nei giorni nostri? I Dino Campana senza il rifugio della poesia e senza la forza della ribellione, giudicati più inutili delle foglie secche. I fragili, i diversi, che se non disturbano possono sopravvivere ai margini della società che conta. Ma che se escono urlando dai confini dell’emarginazione trovano subito chi li umilia e li bastona. La strada che porta al manicomio, oggi come allora, può ancora essere breve!
Penso di non sminuire il valore letterario de La notte della cometa se dico che ho rivolto il mio interesse soprattutto alla sua parte documentaristica. Sarà la nostalgia dei miei vent’anni che prevale, sarà che alcune delle esperienze vissute negli anni giovani mi hanno segnato per sempre. Una cosa è comunque certa. Ogni qual volta si parla della vita militare e dell’Accademia di Modena le mie antenne diventano particolarmente sensibili. Non per niente mi concedo questa annotazione marginale, su uno dei molti temi che il provocatorio libro di Sebastiano Vassalli propone.
Nel 1903 Dino Campana è in bilico tra le due scelte, o meglio, è pronto a subire la decisione impostagli dal suo clan familiare: diventare un farmacista, e quindi una probabile macchina per far soldi, o infilare la strada della carriera militare, sicura, di prestigio. Dino Campana supera brillantemente sia gli esami di ammissione, sia il periodo di tirocinio presso la Scuola Militare di Modena, e non e poco. Poi frequenta il primo anno del Corso. Mah. Per quanto mi sforzi non riesco ad immaginarmi il cadetto Dino Campana nel Palazzo Ducale, in quella scuola-caserma a metà tra il seminario e la prigione. Ai miei tempi, nell’Accademia di Modena, se non ti piegavi ti spezzavano in due, come un fuscello. Ti obbligavano a cambiare mestiere. Ecco perché l’ipotesi non romanzata che suggerisce Vassalli mi appare come l’unica credibile. Penso proprio che Dino Campana appartenesse alla categoria dei “cappelloni” più “scafati”, da eliminare non appena possibile. Con un voto insufficiente di Attitudine militare non si veniva ammessi agli esami finali. D’altra parte se Dino Campana avesse superato gli esami di fine Corso, forse non avrebbe poi superato l’altra prova, quella più impegnativa, della guerra ’15-’18. Perché in guerra le pallottole cercano soprattutto i candidi!