Proponiamo un testo di Natalia Ginzburg che non è mai stato raccolto in volume. Per chi scriviamo è il suo primo intervento pubblico sul proprio mestiere. Uscì il 4 giugno 1946 nell’edizione piemontese del quotidiano comunista “l’Unità”, e lo si potrebbe confrontare con i brevi saggi che Pavese pubblicava allora sulla stessa testata. Il 4 giugno 1946 la terza pagina dell’“Unità” piemontese ospitava anche un articolo scientifico del padre di Natalia, Giuseppe Levi, uno di Massimo Mila su Bach, una poesia di Sibilla Aleramo (Cigno) e un disegno di Casorati. Per chi scriviamo fu riproposto sul quotidiano “Milano-sera” del 19-20 novembre 1948, con il titolo Produrre parole.
Per chi scriviamo
Io adesso sto scrivendo un romanzo e non mi chiedo più affatto perché né per chi lo scrivo. Problemi di questo genere adesso mi lasciano in pace. Prima invece mi tormentavo per tante cose e molte volte, camminando per strada, mi sentivo non una persona ma una vera matassa di problemi.
Più di tutto avevo questo pensiero, che i libri non si scrivono per tutti perché c’è tanta gente che vive a fatica e allora non ha voglia di sapere cosa c’è dentro i libri. E gli altri, quelli con la vita facile, quelli che comprano i libri e li leggono e li lodano o ne dicono corna, quelli che hanno tempo di discutere e di pensare, di libri ne hanno già letti molti, e per loro non si ha voglia di scrivere. A vederli camminare per strada si capisce che non se ne ha voglia. Magari capirebbero qualcosa, ma è gente che non ha bisogno di noi.
Non c’è niente di peggio che uno scrittore quando non ha niente da scrivere. Allora si mette a pensare e di solito pensa abbastanza stupidamente. Parlo di uno scrittore di romanzi, uno scrittore come si dice di fantasia. Quando smette d’inventare persone e storie, e invece di persone e storie comincia a costruire problemi, allora è un vero disastro. Sputa pensieri e diventa come un baco da seta. Gli scrittori di fantasia per solito sono persone disordinate e illogiche, incapaci di governare bene e con forza i propri pensieri. Così, a un tratto, si trovano invischiati in una fitta rete di problemi, di domande che restano senza risposta. Grossi bachi da seta che sputano pensieri e problemi.
Il risultato di questo è una grande malinconia. Uno scrittore quando non ha niente da scrivere è un uomo molto triste. Magari lui è un uomo che lavora, uno che passa le giornate a sgobbare su un lavoro qualunque. Un lavoro non da scrittore. Ma quando torna a casa sua la sera e non ha niente da scrivere, si trova come con un pugno di cenere in mano. Si vergogna e gli pare d’aver perso il tempo.
Si vergogna e si mette a pensare: “Io perché sono uno scrittore? Io perché sono uno che fa dei libri quando invece la gente ha bisogno di altre cose diverse? di cose da mangiare e da vestirsi? Perché dei libri e invece la gente ha un sacco di guai e non ha voglia di leggere? la gente ha paura e ha fame e c’è stata la guerra, e io faccio soltanto dei libri?”.
Sembra niente fare dei libri ma uno sacrifica a questo tante cose di sé. Uno rinuncia ad essere tante cose, per essere soltanto uno scrittore. Le mani di uno scrittore non sono mani come quelle degli altri uomini. Sono mani illogiche e disordinate, inabili per tante cose. Mani che al mattino battagliano con una stringa da scarpe, senza riuscire a legar bene il nodo. Infine si spazientano e strappano la stringa. Mani che quando devono far le valige se bisogna partire, indugiano maldestre sugli oggetti e non concludono niente. Mani che Dio ha creato soltanto per scrivere. E così è lo scrittore, uno che Dio ha creato soltanto per scrivere, e vale proprio poco in tutto il resto. Allora, quando non ha niente da scrivere, è un vero disastro. Si vergogna delle sue mani e di tutto se stesso. C’è sempre qualcosa che non va in uno scrittore. Non è mai uno come gli altri. Si vergogna dei libri che ha fatto perché gli sembrano inutili, e dice: “Io che cosa ho fatto? cosa ho fatto nella mia vita? perché dei libri? perché invece non sono stato uno come gli altri, uno di quelli che hanno fatto le cose di cui c’era bisogno? perché i libri e non il pane o le scarpe? perché non quello che desiderano e aspettano gli uomini? C’è degli uomini che hanno il pane e le scarpe e aspettano i libri, ma per loro non si ha voglia di scrivere”.
Lo scrittore cammina per strada e guarda la gente che passa, guarda ora gli uomini e ora le donne e gli pare che tutti se ne freghino di quello che uno può scrivere. E poi va al suo lavoro che non è scrivere romanzi, ma non è neanche pane e scarpe. Lavora ma gli pare sempre di perdere il tempo, gli pare d’avere in mano un pugno di cenere e si vergogna tanto che vorrebbe nascondersi sotto il tavolo. Tante volte il suo lavoro è di scrivere ma non dei libri, lettere invece o articoli per dei giornali, parole non inventate e nemmeno pensate lui deve scrivere, parole e frasi che deve strappare a fatica da qualcosa che non è la sua testa. È un po’ come strappar patate da un campo. La sua testa e tutto il suo corpo si rifiutano di produrre parole, e ancora una volta lo scrittore ha il senso di quello che è un gioco da ragazzi per gli altri uomini, scrivere parole e frasi che non sono inventate né pensate riesce facile a chi non è uno scrittore, e invece a lui questo costa fatica, e la testa gli pare sia divenuta dura e piccola come un nocciolo di ciliegia, il suo corpo si fa duro e rigido e si rifiuta di produrre parole. E allora dice: “Ecco, io una volta ero uno scrittore, e per questo ho rinunciato a tante cose fin da piccolo, ho rinunciato a correre e giocare in pace con gli altri bambini, e poi ho rinunciato a studiar bene a scuola e a sapere tante cose importanti, cosa c’è nella luna e nel sole e com’è fatta una nave, sempre con l’idea che non era nulla per me e che io ero uno scrittore. E adesso non sono più uno scrittore e non sono nulla, sono come una pietra e anche mi pagassero un milione non potrei dar fuori neppure una sola parola”.
A noialtri scrittori ci va male quando non scriviamo. È un disastro. Poi un giorno ripigliamo a scrivere, non si sa come. Sapere per chi scrivere è importante, perché vuol dire anche sapere per chi pensare e parlare. Vuol dire non sentirsi tanto soli quando si va per la strada. Scoprire una piccola scintilla di vita in ogni uomo che incontriamo. Una piccola scintilla di vita in ognuno – e poi allora si sa per chi scrivere. Si sa per chi pensare e parlare. Scoprire che ogni uomo dopo tutto, ha bisogno di qualche cosa. Che tutti hanno fame e sete in un certo modo. Tante volte è vera fame e vera sete, e tante volte è invece un’altra cosa, ma insomma sempre qualcosa a cui è necessario rispondere. E rispondiamo ciascuno come sa e come può, magari anche con un romanzo, con un piccolo romanzo da niente. Allora così tutt’a un tratto ci si ricorda di questo, ma è sempre come se si scoprisse per la prima volta, ed è importante e si sta meglio dopo. E se uno è uno scrittore ripiglia a scrivere, a inventare persone e storie. Se prima ripigli a scrivere e poi scopra la scintilla, o il contrario, non so. Non mi ricordo più come succede. Tutt’a un tratto vanno meglio le cose. Tutt’a un tratto si smette di sputare problemi.
E allora uno comincia a pensare che se anche non sa far le valige, non importa. Magari a poco a poco imparerà. Uno a un tratto vede chiaro e lontano. Gli pare perfino di sapere com’è fatta una nave. Va per la strada e guarda gli uomini e le donne, e si sente simile agli altri, tanto simile che potrebbe mettersi a parlare col primo che passa. Troverebbe subito questa scintilla segreta, quel punto acceso dove un uomo è vero, vivo e uguale proprio a tutti gli altri. E allora certo non c’è più da chiedersi per chi si scrivano i libri. Né chi ne ha bisogno tra gli uomini. Bisogno o non bisogno, si scrivono. Si chiudono gli occhi e si vedono scintille e scintille, un vero fuoco acceso caldo e allegro, che divora problemi e risposte. Succede così.
di Natalia Ginzburg