recensione di Eduardo Savarese
Piero Balzoni
Vita degli anfibi
pp. 208, € 16.15
Alter Ego, Viterbo 2023
Nello studiare i carteggi di grandi musicisti ci si accorge di quanto conti, tra le idee compositive fondanti, la “tinta” in cui immergere una scena, un movimento, addirittura un intero impianto drammaturgico. La forza e la precisione della “tinta” è, per esempio, una preoccupazione costante di Verdi, cioè di un compositore dotato di un istinto drammaturgico e teatrale formidabile. Sono bastate poche pagine di Vita degli anfibi di Piero Balzoni (edizioni Alter Ego) perché mi fosse subito chiaro che l’intento perseguito dall’autore fosse quello di costruire, prima di tutto, un immaginario di atmosfere, una precisissima tinta, lieve e tragica allo stesso tempo, dentro cui poi collocare la trama e i personaggi. L’atmosfera è tutta definita intorno a un lago e i suoi dintorni e abitanti (non a caso sono partito da una premessa operistica e sinfonica, le acque e il lago sono elementi fondamentali): un ex caseificio in disuso da tempo che va custodito; insetti estivi che pullulano sulle sponde di canneti; rane che vivono tra la natura oscura delle acque lacustri e la semi-civilizzazione delle stanze del caseificio; il silenzio del lago di notte, le superfici appena imbronciate da una brezza di afa sopra cui slitta una barchetta sconnessa; pesci brutti ma preziosi, acquattati nella fanghiglia e snidati da qualche lancio cattivo e insistito di pietre. Le nebbie e le brume del lago, con il suo dio e, nel punto più profondo delle acque, una cattedrale capace di lanciare bagliori. Da tutto questo fluisce la “tinta” terracquea, sospesa su un precipizio, silenziosa e impossibilitata a fornire una vera consolazione, qualche effettivo ristoro, in cui si consuma la misteriosa sparizione del padre della protagonista nel giorno del compleanno di lei, bambina in attesa di ricevere un dono dal genitore per quando avrebbero finito di giocare insieme sull’altalena. E invece “l’altalena va su, l’altalena va giù”, il padre non fa ritorno né quella sera, né nelle sere successive, né nell’ex caseificio dove lui e la moglie svolgono la mansione di custodi, e neppure nella casa in città. A nulla valgono le prolungate ricerche della polizia e l’impegno profuso da un giovane siciliano di nome Domenico, che alla fine del libro tornerà per sancire definitivamente il carattere irrimediabile della scomparsa.
Balzoni sceglie un arco narrativo ampio: la bambina cresce, diviene una ragazza, poi una donna adulta che svolge il mestiere di infermiera. Quel percorso di crescita resta intinto nel e avvinto dal lago: nessun pensiero, nessun atto della protagonista è in grado di farle ritrovare il padre. Non c’è “dono di luce” capace di placare il dio del lago e indurlo alla restituzione del genitore perduto. Come per il racconto di ogni grande assenza, Balzoni sceglie abilmente, e in modo commovente, i tratti estetici produttivi di mito agli occhi di una bimba (ma anche, significativamente, agli occhi della nonna della protagonista, la madre del padre scomparso che morirà demente): un uomo con gli stivali a punta, da sceriffo, che porta sempre con sé matite rosse e blu. L’assenza genera così un’instancabile nostalgia che anzi si accresce nei vent’anni in cui la storia si dipana e una, del pari instancabile, rabbia nella madre della protagonista che di notte, alla finestra, spalle alla casa, ride in direzione del lago con un verso di rana che terrorizza la bambina e inquieta noi che leggiamo. Il riso disperante della vita spezzata di chi resta ad attendere notizie.
Tra i movimenti narrativi minimi che Balzoni imprime alla storia – quei minuscoli scarti che la chiusura emotiva della protagonista solo è in grado di reggere e raccontare – uno trova sviluppo nella seconda parte del romanzo: il rapporto della donna ormai adulta con Giulio, un signore che ha subito un lutto atroce e gestisce una cartoleria. Rimettendo in ordine una ex biblioteca si dipaneranno nuove esperienze, nuove forme di conoscenza (si rinverdisce anche il dolore per le speranze deluse dalle indagini su sparizioni contigue a quella del padre), soprattutto si potrà recuperare una dimensione di lieve condivisione attraverso il lavoro semplice delle mani che riordinano libri e giornali. E quella tinta iniziale che sembrava smarrita ritorna, variata, in un rientro invernale e innevato al lago e all’ex caseificio, in cui la protagonista e Giulio, intirizziti per il freddo implacabile, tentano però, essi stessi creature anfibie, di muoversi ancora, di restare vivi tra i molti pezzi morti, andati, assenti. Perduti. Non era agevole mantenere e amministrare la consistenza sinistra e delicata di queste atmosfere: Balzoni ci riesce, con rigorosa sobrietà di mezzi.