Dall’archivio. Natalia Ginzburg, ricordando Italo Calvino

Il sole e la luna 

di Natalia Ginzburg

dagli archivi: 1985 –  anno II – n. 8

L’ultima volta che ho visto Calvino vivo, è stato in una stanza dell’ospedale di Siena, il giorno dopo che l’avevano operato alla testa. Aveva la testa fasciata, le braccia nude fuori dal lenzuolo, abbronzate e forti, ed era assopito. Il suo viso era pieno e calmo, il respiro tranquillo e sano. Non aveva, nel viso, segni di sofferenza. Ho pensato che presto sarebbe guarito, si sarebbe alzato da quel letto. Nei giorni successivi, i giornali riportavano frasi che aveva detto quando s’era svegliato. Aveva guardato i tubi delle sue fleboclisi, e aveva detto: “Sembro un lampadario”. Era entrata la figlia e gli aveva chiesto: “Chi sono io?” Aveva detto: “Tu sei la tartaruga”. Uno dei medici gli aveva fatto qualche domanda e poi gli aveva chiesto: “Chi sono io?” Aveva detto: “Un commissario di polizia”. Per coloro che gli volevano bene, quelle frasi erano un dono prezioso, il segno che era sempre lui, che niente era cambiato nella sua persona, che nella sua mente ruotavano ancora delle tartarughe, dei lampadari, dei commissari di polizia.

Mi riesce impossibile pensarlo morto. Non so perché, ma la morte mi sembrava quanto mai lontana dalla sua persona. Quando io l’ho conosciuto, era un ragazzo, aveva ventitré anni. M’accorgo che l’ho sempre visto come un ragazzo. Nemmeno avevo mai pensato che potesse invecchiare, trasformarsi in un vecchio zoppicante e canuto. E in verità non era, a ventitré anni, molto diverso nell’aspetto fisico da quello che divenne più tardi. Il tempo gli portò sulla fronte delle rughe orizzontali, e qualche ciuffo grigio sulle tempie: ma, nel fisico, non molto altro. Aveva, in giovinezza, la persona asciutta, prosciugata, svelta, diritta: e così rimase. Benché fosse così diritto nella persona, usava però, anche in giovinezza, ogni tanto incurvare le spalle, come se volesse raggomitolarsi in se stesso, e difendersi da interrogazioni importune. In giovinezza, spesso balbettava; e balbettava un poco, è vero, anche dopo; da ragazzo, di più. Molte volte sembrava tirar fuori le parole da una sacca segreta, o strapparle a fatica da qualche suo segreto gomitolo: e nel pronunciarle incespicava, aggrottava la fronte e abbassava gli occhi sulle proprie dita intrecciate, con una perplessità ironica e testarda, e come rifacendo il verso a se stesso. Anche se così tante volte tirava fuori le parole con fatica e lentezza, non parevano fatica e lentezza per nulla presenti nel suo pensiero, né in ciò che faceva; fatica, lentezza e balbuzie erano un modo di prendere in giro se stesso, e gli altri, e la propria maniera di stare al mondo. Quando l’ho conosciuto, quella sua balbuzie in parte vera e in parte simulata m’aveva colpito per un’allegria straordinaria che ne emanava: perché vi si nascondeva una meravigliosa facoltà di commentare comicamente la propria persona, e il prossimo, e le code pelose, irsute, squamose e infinite che serpeggiano dietro alle parole.

Ho conosciuto Calvino nell’inverno del ’46, a Torino, nella sede della casa editrice Einaudi, in un corridoio, davanti a una stufa. Era una mattina di neve, grigia e buia, e in quel corridoio era accesa la luce. La stufa era di quelle stufe di coccio, che vengono da Castellamonte, e che tingono le mani di rosso quando si toccano. Calvino lavorava all’Unità, allora, ed era capitato lì per caso, forse per chiedere qualche libro da recensire. Nella casa editrice, allora, eravamo in pochi: aspettavamo Pavese, che non era ancora ritornato da Roma, dove soggiornava da lunghi mesi. Abbiamo parlato molto a lungo, Calvino e io, in piedi davanti a quella stufa: chissà perché non abbiamo preso due sedie. Ricordo bene la stufa, e la neve di fuori; ma non ricordo di cosa abbiamo parlato; penso, di racconti. Calvino aveva scritto un racconto, Andata al comando, e l’aveva mandato a Vittorini per “Politecnico”; Vittorini gli aveva espresso qualche riserva. Il mio idolo, allora, era Hemingway, e seppi che era un idolo anche per Calvino; e il racconto di Hemingway, Colline come elefanti bianchi, l’uno e l’altra per averlo scritto avremmo dato dieci anni della nostra vita. Poco tempo dopo, Pavese è ritornato da Roma. Lui e Calvino sono diventati amici. Andata al comando è stato pubblicato su “Politecnico”. Calvino, credo per sollecitazione di Pavese, ha lasciato l’Unità ed è entrato a lavorare stabilmente nella casa editrice. Due anni dopo, Calvino e io siamo andati a Stresa a trovare Hemingway. Andavamo là per incarico della casa editrice. Eravamo felici di andare e timorosi che non volesse riceverci. Fummo accolti nella sua stanza. A un piccolo tavolo illuminato, non so perché, da candele, abbiamo finalmente potuto dirgli quanto avessimo amato Colline come elefanti bianchi.

A me e a Pavese, Calvino portava da leggere i suoi racconti. Erano scritti a mano, in una calligrafìa minuta, arrotondata e fitta di cancellature. Ci sembravano molto belli. Vi si scorgevano paesaggi festosi, immersi in una luce solare; a volte le vicende erano vicende di guerra, di morte e di sangue, ma nulla sembrava offuscare l’alta luce del giorno; e non un’ombra scendeva mai su quei boschi verdi, frondosi, popolati di ragazzi, di animali e di uccelli. Il suo stile era, fin dall’inizio, lineare e limpido; divenne più tardi, nel corso degli anni, un puro cristallo. In quello stile fresco e trasparente, la realtà appariva screziata, variegata, e colorata di mille colori; e sembrava un miracolo quella festosità, quella luce solare, in un’epoca in cui lo scrivere era abitualmente severo, accigliato e parsimonioso e nel mondo che tentavamo di raccontare non regnava che nebbia, pioggia e cenere.

Quando Pavese si è ucciso, abbiamo diviso insieme quella sventura, Calvino, Balbo, Giulio Einaudi e io. Questa sventura ci ha tenuti uniti, nel corso degli anni, era nelle più profonde radici dei nostri rapporti. E così ci hanno tenuti uniti altre perdite, anche se vivevamo in città diverse e percorrevamo diverse strade, nel corso degli anni. Nel ’56, Calvino ha pubblicato Le fiabe italiane. Penso che sia il più bel libro per l’infanzia che sia apparso in Italia, dopo Pinocchio. Lo dovrebbero leggere nelle scuole; forse lo fanno; ma dovrebbero farlo, penso, ancora di più. Lo stile, nelle Fiabe italiane, è rapidissimo e trasparente. Vi si impara la concretezza, la concisione, e una leggerezza di piuma; e regna, nelle Fiabe italiane, quella medesima luce festosa e solare che incontriamo nel Visconte dimezzato come nei suoi più antichi racconti.

Fra tutti gli articoli che sono stati scritti in questi giorni per ricordare Calvino, il più bello mi è parso quello di Pietro Citati: perché, nelle sue parole, mi è sembrato di riconoscere Calvino come veramente era; come era da giovane, e come divenne più tardi. Non si è mai trasformato nell’aspetto fisico, è rimasto un ragazzo: ma nella mente e nell’animo ha subito, a un certo punto, una profonda trasformazione. Questo ha detto Citati, e l’ha detto, che io sappia, lui solo. Quali fossero le ragioni e le strade di questa trasformazione, non ci è dato saperlo. Essa è trapelata forse in un suo modo di camminare, di sorridere, di guardare. Si è riflessa nel suo scrivere. Citati dice: “Con sempre maggiore tenacia, con sempre maggiore inquietudine, con una straordinaria capacità di vibrazioni, Calvino inseguiva quella vastissima parte della nostra esistenza che sta dietro i sentimenti e i pensieri: tutto ciò che si annida nei crepacci, negli abissi, nelle voragini del nostro spirito…”. “La sua mente si trasformò. Diventò la più complicata, la più labirintica, la più avvolgente, la più sinuosa, la più architettonica mente che uno scrittore italiano moderno abbia mai posseduto…”. “Non sapeva più affermare nulla: non sapeva escludere nulla; perché ogni affermazione generava la negazione, e la negazione un’altra affermazione, e così in un movimento vertiginoso che talvolta lo condusse all’impossibilità di parlare e di scrivere”. A poco a poco sono scomparsi dai suoi libri i paesaggi verdi e frondosi, le nevi scintillanti, l’alta luce del giorno. Si è alzata nel suo scrivere una luce diversa, una luce non più radiosa ma bianca, non fredda ma totalmente deserta. L’ironia è rimasta, ma impercettibile e non più felice di esistere, bianca e disabitata come la luna. In quel libro stupendo che è Le città invisibili, secondo me il più bello dei suoi libri, questa trasformazione è già avvenuta. Il mondo è là, radioso, multiforme, variegato e screziato, e intatto nel suo splendore: ma è come se lo sguardo che lo indaga, lo scevera e lo contempla sia consapevole di abbandonarlo per sempre.

D’ora innanzi, quello sguardo si poserà altrove, non più sulle immensità luminose del cielo e del mare e sull’intrico delle varie vicende umane: d’ora innanzi, quella immensità la cercherà altrove, nei gusci degli insetti o nelle crepe delle rocce: “nei crepacci, negli abissi, nelle voragini del nostro spirito”. Sulle “città invisibili” si è addensato il dolore della memoria. In ogni altra opera di Calvino, la memoria è assente, o meglio, quando è presente, non è mai dolorosa. Qui, nelle “città invisibili”, non sognate ma ricordate, regna la memoria dolorosa di un tempo che non potrà mai ritornare. Sulle città, altissime sotto il cielo, brulicanti e splendenti, formicolanti di umani errori, traboccanti di merci e di cibi, affollate di traffici, dominio dei topi e delle rondini, cala il tramonto. Lo sguardo che le saluta è uno sguardo che dice addio, a un mondo molto amato, fissandolo da una nave che s’allontana.