Mario Desiati – Malbianco

Le cose ignorate che diventano fantasmi

di Virginia Giustetto

Mario Desiati
Malbianco
pp. 400, € 21,
Einaudi, Torino 2025

Eravamo rimasti a un assolato giugno pugliese, due spatriati all’ombra di una pergola che leggono poesie, con la segreta aspirazione che ogni verso in cui si riconoscono sia stato scritto per loro. Ci ritroviamo in un tardo pomeriggio berlinese, di fronte a un uomo, un po’ più vecchio, in preda a uno svenimento. Si chiama Marco Petrovici ed è il protagonista di Malbianco, il nuovo romanzo di Mario Desiati. Louise Bourgeois scrive che la memoria non vale niente, dobbiamo solo aspettare che ci assalga; nel caso di Marco Petrovici, l’atto stesso dello svenimento segnala che quella circostanza si sta verificando. A partire da questo fatto, dall’idea cioè che il proprio stato emotivo, così come i sintomi fisici, siano riconducibili a un passato con cui non ha fatto sufficientemente i conti, l’uomo lascia Berlino e torna dai genitori, nel tarantino, in una casa immersa nel bosco in cui Use e Tonia si sono recentemente trasferiti: un luogo intriso di memorie familiari, su cui pende “il passato migliore e peggiore della mia esistenza”. Il passato in cui Marco Petrovici intende rimestare non riguarda soltanto la sua giovinezza, ma affonda le radici in un intervallo temporale molto più ampio, che copre oltre un secolo e ha origine con la nascita della bisnonna, Addolorata, abbandonata nella “ruota degli esposti”, affinché qualcuno se ne prendesse cura. Un intervallo che, tra le altre cose, tiene insieme due chiamate alle armi, un campo di internamento, una diserzione, “il seme dell’ebraismo”, la morte di un neonato, una misteriosa malattia. È inevitabile: sollevando la patina che cancella alcuni rami di un albero genealogico (il malbianco del titolo), si finisce per attraversare la storia collettiva di un popolo.

Malbianco è un romanzo di omissioni, atti mancati, fraintendimenti, segreti, esperienze troppo dolorose per essere elaborate, che proprio in ragione di questa mancata elaborazione si tramandano, come spettri, ai figli e ai figli dei figli. Nella consapevolezza che “la famiglia è la culla del trauma originario”, e che la memoria è materia lacunosa, frammentaria. Pertanto, come suggerito dal neuropsichiatra che lo ha in cura, è necessario che Marco Petrovici arricchisca ricordi, sogni e intuizioni con “la ricerca storica, letteraria, antropologica e geografica” di quattro generazioni di donne e di uomini. Vladimiro, detto Pepin, che nell’inverno del 1941 marcia nella steppa russa. Ha una divisa con le mostrine rosse e porta con sé il suo violino. Perché ha smesso di parlare? Demetrio, che sopravvive a una prigionia in Germania ma fa ritorno dopo due anni. Cosa accade tra il 1945 e il 1947? Addolorata, asinaia di Martina Franca, che canta una ninna nanna yiddish ai suoi figli ogni sera. Dove l’ha imparata? Se è vero che in questo libro le esperienze traumatiche (e il senso della vergogna, il peso della colpa) sono spesso vissute dagli uomini, è altrettanto vero che spetta alle donne custodirle, cucirle insieme, soprattutto rendere possibile il loro disvelamento. Tonia, Gloria, Luisa, il personaggio magnifico di zia Ada: libere, limpide, in grado di mettere a nudo.

Come la vicenda che racconta, Malbianco è un’opera che si sfrangia, ramifica, assume nuove forme, di pari passo con un io, quello del narratore delle prime due parti, che in continuazione si sfalda, si spoglia del proprio sé e si ricompone in quello di un altro. Nel tentativo mai completamente soddisfatto di colmare il vuoto lasciato dagli altri, e nella convinzione che “le cose che ignoriamo diventano fantasmi […], appaiono sotto forma di comportamenti, a volte angosce, incubi soffocanti, sogni e sintomi”, ed è dunque necessario risalire alla radice. La stratificazione della memoria trova corrispondenza nella struttura dell’opera: quattro distinte parti progressivamente più sottili, che presentano significativi cambi di punto di vista. Un assottigliamento che se da un lato sembra mimare il progressivo restringersi del campo del non conosciuto, il processo di svelamento, dall’altro, attraverso una voce narrante che muta – insieme all’ambientazione, all’epoca, alla lingua – fa emergere l’arbitrarietà dei singoli, il ruolo dell’immaginazione, i frammenti di verità individuali destinati a rimanere tali.

Sullo sfondo, lungo tutta la narrazione, scorre la tradizione popolare: credenze, simbologie animali, il legame insistito con l’elemento naturale: le rondini che trasportano le anime dei morti, gli asini che si salvano da soli, gli alberi che “pur senza radici e con i rami di carbone, restano ammutoliti, inerti, si reggono su indugiando al cielo”. L’immagine dell’albero, presente anche in copertina, non rimanda solo alla genealogia famigliare, alla metafora dei rami spezzati, del fungo malbianco che come un velo prima ricopre le foglie e poi le priva delle sostanze nutritive. Quando prende le sembianze del bosco diventa luogo letterario per eccellenza, oggetto semiotico, spazio archetipico del mito. Che si tratti delle querce e dei lecci del bosco dei Petrovici, o dei faggi e delle betulle che circondano la segheria tedesca in cui lavora Demetrio durante la sua prigionia, il bosco è territorio d’elezione dello smarrimento, delle paure, del pericolo, e al tempo stesso riparo, connessione, armonia, memoria silenziosa del tempo trascorso. Gli alberi entrano dei sogni premonitori di Ada, nelle lettere di Demetrio, nella storia funesta che Addolorata racconta ai nipoti con l’aiuto di una cartolina. Nei momenti di maggior tensione emotiva, quando anche la scrittura tocca le vette più alte, l’ambientazione che fa da sfondo è quasi sempre quella boschiva: il faccia a faccia di Marco con il lupo; la fuga di Demetrio nella notte del naufragio; l’incendio che divampa rischiando di travolgere l’intero passato di una famiglia: “alberi che bruciano e che per tutta la nostra giovinezza e infanzia abbiamo vegliato come ad aspettare da loro la risposta su chi eravamo davvero”. Salvare il proprio passato, per poi, una volta per tutte, lasciarlo andare.

virginia.giustetto92@gmail.com
V. Giustetto è dottoressa di ricerca in lingua e letteratura italiane