Janek Gorczyca – Storia di mia vita

recensione di Sara Quondamatteo

Janek Gorczyca
Storia di mia vita
pp. 152, € 15
Sellerio, Palermo, 2024

Il titolo scelto per l’esordio letterario dello scrittore di origine polacca Janek Gorczyca lascia spazio a ben pochi dubbi: Storia di mia vita è un testo autobiografico, una raccolta di memorie o, per dirla con le parole dell’autore, «un breve racconto di mia esperienza sulla vita per la strada». La narrazione si apre in medias res, nell’ottobre 1998, punto di partenza di un intreccio che ricostruisce perlopiù in ordine cronologico la vita dello scrittore nei venticinque anni trascorsi a Roma senza fissa dimora. Se il libro, dunque, non sembra presentare particolari elementi d’innovazione sul piano della struttura, altre sono le novità che lo hanno reso uno dei casi editoriali più discussi degli ultimi mesi.

La lingua, innanzitutto. Come lascia presagire quell’articolo mancante nel titolo, perdita tipica nel passaggio da una lingua slava ad una romanza, Storia di mia vita è scritto nell’italiano unico e personale di Gorczyca, che sfugge continuamente alle norme linguistiche e letterarie. Il lavoro di editing da parte della casa editrice Sellerio si è limitato ad aggiustamenti e correzioni minime dei quaderni manoscritti ricevuti da Christian Raimo, amico dell’autore e principale promotore dell’opera. Con questa scelta editoriale sono state preservate le peculiarità di una scrittura che ha rifiutato le comodità, e persino le restrizioni, della lingua materna per addentrarsi nello spazio incerto ed indefinito della seconda lingua. Ne deriva uno stile a metà fra reportage e flusso di coscienza, fra cronaca e monologo interiore, caratterizzato sì da un vocabolario essenziale ma arricchito allo stesso tempo da interferenze sintattiche e slittamenti semantici. L’espressività dell’autore risulta così potenziata, come si può osservare nel brano dedicato alla soppressione del cane Mufi: «Mufi una mattina lui è paralizzato, inutile tentativo di salvarlo, non si regge in zampe, cammina con fatica respira male, non vado a lavorare ma di corsa in clinica veterinaria, unico modo addormentarlo per non farlo soffrire». L’italiano “scorretto” ma spontaneo di Gorczyca funge inoltre da perno di una narrazione antiretorica, lontana dai toni moraleggianti o tragici del racconto vittimistico e traumatico, e che risponde piuttosto all’unico imperativo di dare voce al proprio vissuto.

È lo stesso Gorczyca a bilanciare con commenti lucidi e distaccati gli eccessi di intimismo insiti nell’autobiografismo: «Non ho più niente da dire solo che la vita è questa ma questo è un racconto non diario di un capitano di barca». Con la sua storia di vagabondaggio per la città, l’autore non intende suscitare nel lettore sentimenti di compassione o di comprensione («per me due panini a settimana e domande cretine tipo “come stai” sono una umiliazione»), né tantomeno formulare una chiara denuncia sociale. La sua scrittura risponde piuttosto all’esigenza di ripercorrere la propria vita, di «tornare indietro» sui suoi passi e riflettere sulle scelte compiute per risalire fino alla radice del suo dolore: «a distanza di anni mi faccio domande: perché se avevo tutte altre possibilità alla fine ho scelto la strada peggiore da immaginare?» Non si legga questa auto-accusa secondo i canoni della morale borghese: il dolore di Gorczyca, infatti, non nasce come il racconto tra cartoni, coperte ed elemosine. Lo dimostra la ricca digressione storica del quinto capitolo, dedicata agli anni vissuti sotto il regime comunista in Polonia, al servizio prestato nell’esercito in Afghanistan e alle tristi vicende familiari che hanno preceduto il suo arrivo in Italia. E lo dimostra, anche, la diversa e più ampia concezione della “strada” che emerge in Storia di mia vita, dove miseria e difficoltà si intrecciano ad una fitta rete di relazioni, condivisione e solidarietà.

Le centocinquanta pagine che compongono il libro, in effetti, non sembrano indicare in modo univoco l’origine della sofferenza dell’autore, troppo grande per essere chiaramente espressa nella scrittura: «qui voglio finire mio racconto, perché ho sofferto troppo». Come già osservato, la vita per strada, l’alcolismo e la malattia fisica appaiono piuttosto come sfaccettature, manifestazioni o conseguenze di un più profondo senso di solitudine percepito da Gorczyca nel corso di tutta la sua esistenza, che raggiunge il suo apice con la morte dell’amata Marta. Compagna di vita per oltre venticinque anni, il suo nome incornicia l’intero racconto, comparendo nella dedica iniziale e nell’ultima pagina dell’opera. E forse, a ben guardare, sono proprio la sua insopportabile assenza e il persistere nella memoria dell’autore a motivare più di ogni altra esperienza il processo di composizione di Storia di mia vita: «Per me è un ricordo doloroso e mi sono posto una domanda, perché lei deve soffrire tanto, ma dopo mi sono reso conto che questo era destino suo e anche mio. Non la dimentico mai, sarà sempre con me, non voglio allargare accaduto perché ancora molto doloroso».

 sara.quondamatteo@outlook.it
Sara Quondamatteo è Dottoressa di Ricerca dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e della Sorbonne Université.