Scrivere a sedici anni
di Beatrice Sciarrillo
Caterina Saviane
Ore perse
Vivere a sedici anni
pp. 165, € 15,
Rina edizioni, Roma 2023
«Non so niente di Caterina Saviane, ma qualche notte fa, mentre camminavo in via Giolitti, credo di averla incontrata». Così scrive Luciano Funetta nella prefazione di Ore perse. Vivere a sedici anni, il romanzo d’esordio di Caterina Saviane, edito da Feltrinelli nell’aprile del 1978 nella collana Franchi Narratori, curata prima da Nanni Balestrini e in seguito da Aldo Tagliaferri. Dopo aver ottenuto una grande fama – cinque edizioni in un anno – ed essere stato tradotto all’estero, il libro fu dimenticato e per lungo tempo introvabile. A più di quarant’anni dalla prima edizione, adesso ritorna in libreria grazie a Rina edizioni – casa editrice indipendente romana nata con un progetto ben preciso: recuperare scrittrici “dimenticate” che attraverso la lucidità del loro sguardo hanno saputo indagare le complessità del tempo in cui vivevano.
Dunque, prima di leggere questo libro, neanch’io conoscevo Caterina Saviane, né le sue opere né tantomeno il suo nome. Ora però vorrei rileggere Ore perse, una seconda, una terza, una quarta volta; vorrei che Caterina Saviane avesse scritto un secondo romanzo. E vorrei conoscere questa ragazza, rimasta ragazza per sempre. Caterina Saviane infatti scrive questo libro all’età di sedici anni ed esordisce, giovanissima, a diciotto; muore per overdose una manciata di anni più tardi, nel 1991, lasciandoci un unico straordinario romanzo e una raccolta poetica, appénna ammattita, edita da nottetempo nel 2015, nella collana ‘‘poeti.com’’, curata da Maria Pace Ottieri e Andrea Amerio.
Ore perse è il diario, sul finire degli anni Settanta, di un’adolescente della classe intellettuale romana. Che legge Kerouac, ascolta la musica jazz, fa l’autostop per raggiungere il mare, chiacchiera con la vicina di casa razzista e litiga con la madre che la vorrebbe diversa da come è. Sembrerebbe, quindi, la vita ordinaria di una qualsiasi adolescente, se non fosse per la straordinaria e matura disillusione di Caterina, protagonista e voce narrante, che si sente «tradita» – dalla famiglia, dalle amicizie, dalla scuola – e non nutre nessuna fiducia nei confronti del proprio futuro. Presa dalla curiosità di conoscere il suo aspetto, cerco su internet una fotografia; quando la trovo, la osservo nei minimi dettagli: il viso magro, lungo, due occhi marroni, che guardano in obliquo, una corta pettinatura che ricorda quella di tante donne che, sulla scia del movimento femminista sessantottino, trovarono nel taglio dei capelli una forma di emancipazione e soggettività. Se l’avessi conosciuta al tempo – io sedicenne, lei sedicenne – io e Caterina avremmo avuto tanto, forse troppo, in comune. Ma io, a sedici anni, non possedevo la sua capacità di individuare, riflettere ed elaborare, in medias res, e con estrema lucidità, quel garbuglio così caotico e sconclusionato dell’adolescenza. Saviane racconta benissimo lo scorrere lento del tempo nella prima giovinezza, la sua convivenza con una massa di fannulloni, con la chitarra tra le mani e una sigaretta accesa ai margini della bocca. «I Pellepersa», così li chiama il padre di Caterina, il critico televisivo Sergio Saviane, firma de «L’Espresso», abituato ad addormentarsi di fronte alla televisione e inveire contro il telegiornale. Caterina trascorre molti giorni nella casa di campagna del padre, affollata di scartoffie, libri, bottiglie di vino e brustolini. Qui le tavole non sono mai apparecchiate, si mangia in piedi, un pezzo di pane e formaggio e, nella stanza della scrittura, padre e figlia battono crudelmente sulla macchina da scrivere, «il mostro sulla scrivania».
Nei giorni senza senso dell’adolescenza, se i minuti scorrono lentissimi – lo sguardo che controlla ripetutamente la lancetta immobile dell’orologio –, può capitare di svegliarsi all’alba e di accorgersi di aver perso tutto, di aver perso la famiglia, gli amici, la scuola, di aver perso le ore. Ci si può svegliare una mattina, a sedici anni, e sentire le spalle indolenzite, la schiena rotta, i reumatismi. Sedici anni e sentirsi vecchie, finite, prive di qualsiasi speranza, di qualsiasi futuro. Chi non ha mai provato questa sensazione? Scrive Caterina Saviane: «Io so qual è il mio male, che quando faccio qualcosa penso al momento dopo, quando non ci sarà più». Tutto finisce, tutto si consuma nel momento stesso in cui si è creato, e forse ogni nascita viene consumata, assassinata, dalla sua nascita stessa – nel romanzo, infatti, ricorrono spessissimo verbi che indicano la fine: consumare, inaridire, dissipare, sprecare, dissolvere, sperperare. La scrittura stessa sembra consumarsi nel ritmo di ogni pagina: si avverte, nella scelta di ogni parola, la ricerca di un suono abilmente cadenzato e di una forte liricità. La potenza poetica della narrativa di Ore perse si riversò in una decina di poesie, pubblicate sulla rivista «Il lettore di provincia» e poi confluite nella raccolta appénna ammattita, che otterranno il plauso di Andrea Zanzotto.
Caterina Saviane lo sapeva, che il suo male era vivere nel presente, con la consapevolezza che tutto presto finirà, non ci sarà più, ma che lei, gli altri, il mondo rimarranno sempre uguali a sé stessi. Quando lei invece avrebbe voluto cambiare, diventare una creatura multiforme, come multiforme è il paesaggio che scorre nel finestrino di una macchina. Forse, proprio per provare a evolversi, Caterina Saviane strinse con la scrittura «un patto più forte di quello con il diavolo: scrivere e ancora scrivere, fino all’esaurimento». Scrivendo, ci ricorda come l’unica cosa che non finisce, l’unico atto mortale che persiste e si fa immortale è la creazione poetica di cui, se ce l’hai dentro, non puoi liberarti. «Te la devi tenere» scrive a un certo punto. «Forse stanno meglio quelli che non ce l’hanno. Chi lo saprà mai».