Antonio Franchini – Il fuoco che ti porti dentro

Nella polvere della rabbia e della paranoia

di Danilo Bonora

Antonio Franchini
Il fuoco che ti porti dentro
pp. 224, € 18,
Marsilio, Venezia 2024

Il groviglio genitori-figli, tema vastissimo ed evergreen, non abbandona la narrativa nemmeno per un attimo e non ci lascia rifiatare. Poco tempo fa un supplemento culturale ha messo in copertina il flyer di Tutto su mia madre di Almodóvar e aperto con ben quattro nuovi memoir sulle madri di Starnone, Ferrara, De Paolis e Franchini. Nel 1970 un Montale svogliato diede qualche risposta laconica a Dacia Maraini che lo inquisiva per “Vogue” su letteratura, fascismo, politica, infanzia. Il poeta rammentava una madre alta e pallida con quattro chignon, un padre coi capelli “all’Umberto”, tutto il giorno in ufficio e a letto prima delle nove.

Il padre del Fuoco che ti porti dentro assomiglia all’austero commerciante genovese di vernici per navi, in affari anche con Svevo. La protagonista del romanzo è però la madre Angela, una donna che incarna quasi tutti gli aspetti mostruosi dell’italianità, “il qualunquismo, il razzismo, il classismo, l’egoismo, l’opportunismo, il trasformismo, la mezza cultura peggiore dell’ignoranza, il rancore…”. Pur essendo piccolo borghese e istruita (liceo classico e facoltà di lettere) – aveva presto schiaffato la famiglia nel “vascio” barbarico dei lazzari napoletani, oggetto dell’indagine senza posa di La Capria, che ravvisava nello shock del 1799 – la carneficina dell’élite illuminata per mano della plebe e dei sanfedisti – l’origine della “grande paura” borghese (latente persino nella madre) per un popolo ferino “bien plus peuple qu’un autre”, come disse Montesquieu. Difficile comprendere il motivo della sua furia e delle esplosioni di rabbia senza possibilità di ricomposizione. Forse un’infanzia difficile, con un padre morto troppo presto e una madre in grado di rendere infelice la giovinezza e la maturità della figlia, forse la sensazione di essere “sgherra” ed erede dei bellicosi Sanniti caudini, presta al confronto violento, “tipico delle vaiasse nel facciaffrunto”, il diverbio a base d’ingiurie barocche. La madre viene scrutata per decenni – fino alla triste vecchiaia a Milano – sempre di fronte, impossibile qual è il ritratto di profilo o l’agguato alle spalle a una guerriera all’erta e armata come una spietata Demetra o Bellona o Tisifone.

Il narratore non può non chiedersi perché suo padre, un middle class elegante e appassionato di libri, avesse sposato la figlia di un muratore sannita (comunque “artigianato”, rimbeccava lei, casta “superiore ai contadini”), il rovescio della Mater Matuta mediterranea: aggressiva, insolente, sguaiata. Nella versione soft della bipolare Angela sul loro primo flirt (quella hard meglio tralasciarla), lei, giovane segretaria del padre quarantenne, lo concupì fino a provocarlo: “Signorì, perché mi guardate?”. “Perché mi piacete”. Discepola della madre – la farsesca nonna Locusto dell’Abusivo (Marsilio, 2001) – Angela ha tirato dritto assieme alle sue convinzioni: gli uomini figli ’e ’ntrocchia, gli amici meglio perderli che trovarli, il clan degli Izzo first of all, le donne tutte zoccole (“leva le zoccole, vedi chi ci resta”, sentenziava Locusto), ’o Nord e ’o Sud in micidiali talk show neoborbonici, trascinando il figlio alla rissa. Si è parlato di un registro tutto sommato comico nella partitura controllata del romanzo familiare, clownesche apparendo le figure di contorno al duo letale di Locusto e Angela. Per esempio il signor Nobile, ex principale della nonna, gambler e puttaniere, la molesta signora Cimmino del terzo piano, la zia Vittoria pescatrice di mitili, “un’orca o una balena franca” divoratrice di chili di cozze come niente, zì Luigi, “nu fascista fetente”.

Non mancano tuttavia i personaggi “seri”; evidente l’influenza positiva del padre, uomo discreto, vulnerato dalla guerra e dalla morte di un fratello amatissimo, caduto combattendo contro i tedeschi; come anche dell’avvocato Signori, di poche parole e trascurata eleganza, capace di ammansire persino Angela. Ma è soprattutto lo zio Francesco a diventare un role model per il narratore. Emigrato a Milano, avvocato di successo, moglie inglese, ricca biblioteca da storico, è l’incarnazione di un “modo diverso di stare al mondo” rispetto alle piazzate, alla calura e alla polvere di un certo sud. Condotto a Pocol (“suono esotico” da “isola del Pacifico”), a due passi da Cortina, Antonio viene avviato a rocce, scarponi e piccozza – agli antipodi del suo docile mare partenopeo – e diventerà un intellettuale patito delle sfide atletiche, del free climbing, della neve, delle arti marziali.

Al contempo però (o perciò?) rifletterà su di sé e sulla vita di questi adulti colti e malinconici, funestata da angosce di impotenza, inettitudine e irrealtà molto novecentesche. E scrivere, ahinoi, serve a poco: di solito “o è aspirazione o è dilazione, più raramente è atto”. La moribonda Angela non cederà fino all’ultimo ad Anánkē, dea del fato, difendendosi anche con il delirio e la paranoia, convinta di essere derubata dai “nanilli”, i figli minuscoli del portiere peruviano, pronta all’ennesimo duello. Leo Strauss aveva osservato in una memorabile recensione a Carl Schmitt del 1932 come il “politico” – cioè il conflitto – sembrasse al giurista l’unica garanzia perché il mondo non diventasse solo terra del divertimento e dello scherzo, un posto senza serietà. La paranoia della madre risulterebbe qualcosa di più di un atavico costume plebeo, poiché ostilità, rabbia repressa, ambizione, distruttività, acutissima percezione della superiorità o inferiorità del prossimo sono prerogative del potere, naturaliter paranoico.

Bisognerà prendere sul serio il notevole personaggio di Angela, sagomato da Franchini forse per rimediare alla mancanza, lamentata da La Capria, di scrittori “tragici” a Napoli: la sua psiche narcisistica, indotta a processi di negazione e proiezione, aveva intuito che i rapporti sociali sono minacciosi e meno dominabili di quanto siamo disposti ad ammettere. Familiarità e ambienti di rassicurazione reciproca non sono che finzioni, essendoci qualcosa di non realistico nel “realismo” del common sense beneducato: e la dura razionalità corrente – notava Adorno – se ne è servita. Rispondendo a curiosità sull’educazione o diseducazione in famiglia, Franchini si è chiesto se un genitore così pugnace formi meglio il carattere rispetto a quello permissivo oggi di moda, e se “i ragazzi di adesso siano meno capaci di reggere il conflitto e quelli di prima lo fossero di più”. Domanda delle cento pistole.

bonoradanilo@gmail.com
D. Bonora è dottore di ricerca in italianistica presso le Università di Padova e Venezia