Le opere di un grande apripista, artista dell’ingratitudine
di Francesco Rognoni, dal numero di gennaio 2000
“Se solo fossi uno scrittore capace di scrivere, non sempre e soltanto di riscrivere!”, lamentava Truman Capote (1924-84) all’amico Donald Windham nel 1959: un credo flaubertiano – la gloria e la maledizione del mot juste (e non solo la “parola”, ma la frase, il paragrafo, la forma tutta d’un libro e di tutta una carriera…) – professato ancora tale e quale, vent’anni dopo, nella Prefazione a Musica per camaleonti (1980): “Poi un giorno mi misi a scrivere, ignorando di essermi legato per la vita a un nobile ma spietato padrone. Quando Dio ti concede un dono, ti consegna anche una frusta; e questa frusta è predisposta unicamente per l’autoflagellazione”. Che è sì – però non solo – una frase ad effetto, buona per il dépliant d’un corso di creative writing: o Almodóvar non l’avrebbe scelta quasi a esergo del suo “Tutto su mia madre”… (sarà un caso che questo magnifico film s’organizzi attorno a una mise en scène del Tram chiamato desiderio di Tennessee Williams, appunto il dedicatario di Musica per camaleonti?). Nella medesima Prefazione, con notevole lucidità Capote individua nella propria carriera quattro fasi. La prima va dall’apprendistato adolescenziale, se non addirittura dall’infanzia, fino al gran successo del romanzo d’esordio, Altre voci altre stanze (1948), il suo libro più goticheggiante, e riconoscibilmente “sudista”. Poi c’è il decennio delle due novelle, L’arpa d’erba (1951), dove il gotico si stempera in una malinconica pastorale, e quel gioiello, a tutti gli effetti, che è Colazione da Tiffany (1958), a modo suo una “pastorale urbana”. E in questa stessa seconda fase che Capote saggia una quantità d’altre forme di scrittura, dal racconto al ritratto, al copione teatrale e cinematografico, al reportage all’intervista più o meno mascherata: come nel caso del famoso pezzo su Marion Brando, Il duca nel suo dominio (1957), che tanto infuriò l’attore, come uno specchio inaspettato, dove è rubata più della nostra immagine. Il terzo ciclo è tutto preso dal capolavoro, A sangue freddo (1966), il romanzo-verità, o meglio “nonfiction novel” (cioè romanzo “non inventato”, anche se non per questo necessariamente più “vero”), capostipite di tutta una serie di opere anche di prima qualità, come Le armate della notte o II canto del boia di Norman Mailer (che pure ai tempi aveva parlato dell’idea di Capote come di un “fallimento della fantasia”), o del “New Journalism” di Tom Wolfe. Nella Prefazione dell’80, Capote va comprensibilmente fiero del suo ruolo di apripista. Ma quello che importa ora, a distanza di più di trent’anni, di questo che è uno dei pochi “classici” contemporanei – un libro che anche chi non ha mai letto può solo rileggere – è l’intensità immutata, la tensione che non cede, anche quando innumerevoli film e romanzi ci hanno abituati ai crescendo del montaggio alternato, all’avvicinamento della vittima e del suo carnefice: la “convergenza dei due” (per dirla col titolo della celebre poesia di Thomas Hardy sul naufragio del Titanic.)
Voglio dire: A sangue freddo avrà anche iniziato un genere, ma è soprattutto un punto di arrivo definitivo. Ed effettivamente quella quarta fase, di cui Capote nella Prefazione parla in termini soprattutto prospettici, non s’era mai veramente avviata, e senz’altro non verrà portata a compimento. Intendiamoci, il materiale raccolto in Musica per camaleonti – racconti, cronache, “ritratti dialogati” – è variegato e godibilissimo: però preparatorio, nella sua provvisorietà, dell’opera maggiore che già Capote non ha scritto. Perché i quattro pezzi del postumo e incompiuto Preghiere esaudite (1986) – dove, per dirla con l’allora direttrice di “Vanity Fair”, Tina Brown, “l’ingratitudine viene elevata a forma d’arte” -, eran già da tempo usciti in rivista, e null’altro vi si sarebbe aggiunto: se non un gran parlare attorno al romanzo proustiano che si va formando, il libro totale che avrebbe tradotto sul piano del pettegolezzo mondano il livido nulla contemplato nelle cronache criminali.
Raccogliendo, oltre ai libri e ai romanzi, tutti i racconti e una buona scelta di pezzi giornalistici, lo splendido “Meridiano” curato da Gigliola Nocera restituisce alla propria dimensione letteraria un’opera che negli Stati Uniti in questi ultimi dieci-quindici anni è vista – mi sembra – con una certa diffidenza (mi par difficile che Capote venga inserito in tempi brevi nella “Library of America”, la “Plèiade” americana). L’istrionismo incurabile di Capote, l’aggressiva petulanza, l’omosessualità pavoneggiata, e poi l’alcol, le droghe, insomma la pulsione autodistruttiva, hanno quasi avuto la meglio, se non sullo stile, forse almeno sulla sua memoria. E poi il set mondano non perdona gli sgarbi dei suoi cantori: anche perché in America non hanno, mi sembra, un Arbasino abbastanza al di sopra delle parti…
Mi chiedo se si tratti d’una semplice svista, o non piuttosto d’una calcolata rivincita della “letteratura”, il fatto che nella Cronologia non si faccia menzione del celeberrimo ballo “in bianco e nero” che Capote diede al Plaza il 28 novembre 1966, l’anno del successo di A sangue freddo (qualcuno scherzò che “il registro degli invitati sembrava una lista internazionale per la ghigliottina”)… E comunque il saggio rutilante di Arbasino, Truman Capote e il suo mondo, è da solo un nuovo ballo mascherato al Plaza, fin dall’attacco memorabile – “Era piccolo, gonfio, smorto, con questa voluminosa testa da feto imbarazzante” -, che forse ha suggerito (o è suggerito da) la foto piuttosto inedita sul cofanetto. E qui faccio il mio unico appunto. Capote è stato lo scrittore più fotografato della sua generazione: questa era l’occasione anche per un bell’apparato iconografico: dal langui-do adolescente sulla copertina di Altre voci altre stanze al paffuto compare del segaligno Andy Warhol, dalle maschere sottili degli invitati al Plaza ai sorrisi allucinati di Dick Hickock e Perry Smith (gli assassini di A sangue freddo) -, immagini, “non inventate”, anche se non per questo meno irreali.