Shirley Jackson, l’orrore dietro l’ordinario

di Fiorenzo Iuliano

Per gli appassionati di genealogie letterarie, la produzione di Shirley Jackson è un caso interessante. Accostata a Flannery O’Connor, Nathaniel Hawthorne o perfino a William Faulkner, invocata da Stephen King come una dei precursori della moderna letteratura horror, Jackson è stata più volte indicata come erede o caposcuola di qualche tradizione. Tuttavia, la sua opera non ha attirato molta attenzione da parte degli studiosi, nonostante la sua popolarità negli Stati Uniti e all’estero.

Nata a San Francisco nel 1916, e trasferitasi a New York da ragazza, Shirley Hardie Jackson continuerà a spostarsi seguendo il lavoro del marito, il critico Stanley Edgar Hyman. La sua carriera letteraria inizia nel 1943, quando il “New Yorker” pubblica un suo racconto. Nel 1948 esce il primo romanzo, La strada oltre il muro (trad. dall’inglese di Silvia Pareschi, pp. 219, € 19, Adelphi, Milano 2024), seguito dal racconto più famoso, La lotteria (1948; Adelphi, 2007), e, negli anni, da libri per bambini, memorie famigliari e scritti occasionali. Riceve tanti riconoscimenti in vita: le sue opere sono premiate e raccolte in antologie, adattate per il teatro e il cinema. Dopo la morte, avvenuta nel 1965 in seguito a un infarto, la sua notorietà non è però sufficiente a farle guadagnare maggiore attenzione da una critica troppo presa dalla letteratura postmoderna per preoccuparsi di una scrittrice ritenuta di intrattenimento.

Confinata nell’angusta categoria dei minori, sconta il limite stilistico dell’uso insistito di una scrittura sensazionalista o aforistica che, invece di arricchire le storie, ne smorza l’efficacia espressiva. Per quanto alcune battute dei suoi personaggi riescano a colpire, in alcuni casi sembra che il gusto della frase a effetto abbia la meglio sul resto. I limiti della sua scrittura sono così stati riassunti da Harold Bloom: “Jackson sa bene quello che sta facendo, e, quando la rileggiamo, lo sappiamo anche noi”. Per Bloom la narrativa di Jackson non supera il test della rilettura, vero banco di prova della letteratura cosiddetta grande. “La sua arte narrativa si ferma in superficie, e non riesce a ritrarre identità individuali”, continua Bloom. Non c’è dubbio che alcune delle opere di Jackson pecchino di qualche meccanicità di troppo, e che talvolta i suoi personaggi fatichino a uscire da una stilizzazione che li priva di plasticità e verosimiglianza psicologica; ma il suo punto di forza è proprio creare icone invece che raccontare storie, costruire infinite gallerie di mostri invece che complesse architetture narrative.

Per questo Jackson dà il meglio di sé nei racconti brevi, mentre capita che nei romanzi si avverta la fatica di uno sforzo narrativo prolungato. I numerosi racconti valorizzano la sua capacità di scolpire in immagini icastiche una normalità mostruosa e priva di senso come in La lotteria, semplice bozzetto della vita quotidiana in un qualsiasi borgo dell’America coloniale, ma che nel finale fa emergere il mostruoso nel quotidiano: un gioco innocuo che coinvolge l’intera comunità del piccolo villaggio si rivela un macabro rito sacrificale. Le origini puritane degli Stati Uniti hanno forte presa sul suo immaginario, tanto che nel 1956 dedica un breve volume ai processi per stregoneria celebrati a Salem (The Witchcraft of Salem Village, non tradotto in italiano) ricostruendo minuziosamente le vicende di possessione demoniaca, di “spectral evidence” e i processi che ne derivarono. Affascinata dalle atmosfere gotiche, scova streghe nei luoghi più insospettabili, come nell’inquietante La strega (1949; Adelphi, 2023) in cui un uomo anziano e inoffensivo è additato come una strega da un bambino con cui ha intrattenuto una conversazione casuale nello scompartimento di un treno.

Basterebbero solo questi esempi per sottoscrivere almeno una tra le numerose parentele attribuite a Jackson, quella con Hawthorne, allo stesso modo ossessionato (anche per ragioni autobiografiche) dal passato puritano degli Usa e impegnato a cercare in quella fase della storia americana i fondamenti dell’inconscio nazionale. In Jackson, tuttavia, la ricerca di un grande rimosso collettivo sconfina nel disturbante e nel patologico. Se Hawthorne scruta la complessa semiologia dei puritani per svuotarla e rivelarne la sostanziale inconsistenza, Jackson si spinge oltre, sia pure con esiti alterni, leggendone le storture come aberrazioni della psiche, episodi di follia o, peggio, inspiegabili e inquietanti pieghe soprannaturali che d’un tratto inghiottiscono il mondo e lo stravolgono. I suoi personaggi sono creature mostruose che si aggrappano a una normalità convenzionale per sopravvivere alla fatica della vita in comune. Il mondo di tutti i giorni non può e non deve essere compreso, perché comprenderlo rischia di portare in superficie l’irrazionalità perturbante che lo caratterizza. Meglio racchiudersi nelle apparenze, come afferma un personaggio di La meridiana (1958; Adelphi, 2021), abiurando in maniera plateale (e ingannevole) l’autocoscienza cara ai puritani: “le persone non sono fatte per guardarsi dentro – è per questo che hanno ricevuto un corpo: per nascondere l’anima”. I testi più affascinanti di Jackson sono quelli nei quali questa superficie lascia intravedere ciò che c’è dietro, il lato minaccioso, schizofrenico e assurdo della realtà, specie quand’è segnata dal parossismo ottundente e senza senso della civiltà dei consumi. È quello che succede in molti dei racconti contenuti in La luna di miele di Mrs. Smith (1996; Adelphi, 2020) ed è una delle paure adombrate in La meridiana, in cui le sventure profetizzate dal padre defunto di una dei personaggi, zia Fanny, durante un’apparizione, sembrano essere la minaccia terrificante di una società senza classi, unico vero incubo degli Stati Uniti di quegli anni.

I personaggi di Jackson sono marionette in balia di qualcosa di più grande di loro, e forse è proprio questo l’effetto ricercato nei suoi libri: raffigurare automi capaci di indifferenza e crudeltà efferate, che incredibilmente proprio per questo riescono a catturare l’empatia di chi legge. Un brano di La strada oltre il muro svela tali intenzioni: “La vita degli abitanti di Pepper Street […], come quella dei loro antenati più o meno remoti, era silenziosamente guidata da una forza distante e misteriosa. Il cielo, vicino ma incontrollabile, aveva esercitato un potere immediato sui progenitori di Mr. Desmond e di Mr. Byrne, così come il vento e il lombrico, che non gli appartenevano, e come le altre cose che li governavano in modo invisibile”. Queste entità invisibili dalle identità di volta in volta diverse sono i veri protagonisti delle sue storie, ben più importanti dei pallidi sembianti umani che ne subiscono le conseguenze. In L’incubo di Hill House (1959; Adelphi, 2004) si manifestano come presenze soprannaturali. Utilizzando il vecchio motivo della casa infestata, Jackson immagina la presenza di forze occulte e destabilizzanti per la psiche umana, ma necessarie per sopravvivere all’ordinarietà frustante della vita quotidiana, come riassume l’apertura del romanzo: “Nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta realtà; perfino le allodole e le cavallette sognano, a detta di alcuni”. Nel potente Lizzie (1954; Adelphi, 2014) problemi di ordine psichiatrico sono chiamati in causa per suggerire quanto fragile sia la pretesa umana di controllare la realtà, materiale e psichica. Il disturbo dissociativo della personalità trasforma la protagonista Elizabeth Richmond in una serie di figure contrastanti, dotate di individualità in conflitto tra loro, mentre lo spettro della società repressiva e delle sue distruttive strutture di confinamento aleggia sullo sfondo: “Ti ricovereremo in un bel posto, vedrai […] In un istituto, un manicomio, un superbordello dove potrai smontarti e rimontarti come un maledetto puzzle, con tutti quei bei dottori attorno che ti applaudiranno quando ti frazionerai in tanti appartamenti, e quelle gentili infermiere che ti daranno le carezzine sulla testa quando diventerete in sedici e sghignazzeranno e ti porteranno via e ti chiuderanno a chiave e io mi sarò liberata di te e il mondo si sarà liberato di te, e il tuo caro dottore si sarà liberato di te, e l’universo sarà un posto migliore quando tu andrai a spaccarti in privato”. La meridiana o Abbiamo sempre vissuto nel castello (1962; Adelphi, 2009) sfruttano appieno un’ambientazione cara a Jackson – la casa diroccata e isolata – per incapsulare nella dimensione famigliare le paure che ossessionano le protagoniste, trasformando il focolare domestico, regno ideale delle donne negli Stati Uniti conformisti degli anni cinquanta, in un luogo asfittico e claustrofobico, tanto più distruttivo quanto più sereno e perfino confortevole è il suo aspetto.

La paura delle protagoniste dei testi di Jackson sembra figlia del senso di colpa. “Paura e colpa sono sorelle”, è detto in L’incubo di Hill House. Le donne dei suoi romanzi vivono la perenne conflittualità tra la ribellione, spesso violenta, verso la repressione subita, e l’angoscia che segue le loro azioni e diventa presto alienazione distruttiva: “Possibile che siano tutti pazzi tranne me?”, commenta Mrs Arnold, in una conversazione con un medico sulla presunta pazzia del marito, nel brevissimo Colloquio.

Un’inquietudine senza nome destabilizza non solo i suoi personaggi, ma anche la percezione di chi legge, ribaltandone le aspettative. In questo senso, Abbiamo sempre vissuto nel castello è il contraltare surreale di L’incubo di Hill House: all’atmosfera tesa e carica di ansia di quest’ultimo, infatti, si sostituisce una sorta di favola horror in cui è impossibile localizzare ciò che rende spaventosa l’intera storia. La vicenda di due sorelle, emarginate dalla piccola città in cui vivono, che si asserragliano nella casa avita e rompono ogni rapporto con il resto del mondo, è resa più inquietante da una narrazione che si dipana leggera, raccontata dalla prospettiva ingenua e innocente della più giovane, Merricat. L’elemento davvero perturbante va cercato nella prospettiva rovesciata del romanzo: il dubbio che lentamente si insinua è che i veri malvagi siano proprio le due sorelle che si presentano come inermi vittime della perfidia altrui, in un radicale stravolgimento delle categorie morali e culturali prodotte dal senso comune. Questo rovesciamento caratterizza, sia pure in maniera ambigua, la tragica conclusione di L’incubo di Hill House: la giovane protagonista Eleanor Vance diventa lei stessa una delle entità inafferrabili che infestano l’edificio, dopo avere cercato invano di scoprirne l’identità.

L’affettività potenzialmente tossica, opprimente e ansiogena, è una delle minacce a cui Jackson dà corpo, probabilmente per ragioni autobiografiche: la presenza ingombrante di una madre tirannica e anaffettiva, il ruolo dominante del marito infedele. Ma indipendentemente dalla vita privata, la forza della sua scrittura va cercata proprio nella sua capacità di immaginare una regia inconscia, inafferrabile e tuttavia devastante, nelle dimensioni più ordinarie della società del suo tempo.

iuliano@unica.it
F. Iuliano insegna letteratura angloamericana all’Università di Cagliari