Non piangere, non guardare: l’educazione degli aracnoidi
Intervista di Teresa Lussone ad Antoine Volodine
L’intervista si è svolta in occasione del tour di Volodine in Italia per la presentazione di Liturgia del disprezzo (ringrazio Benedetta Senin e Giulia Capotorto). L’intervista è stata tradotta da Giulio Sanseverino.
La prima edizione in Francia di Liturgia del disprezzo risale al 1986, prima della nascita del post-esotismo. È stata un’opera importante per la futura creazione del movimento?
I miei primi libri rappresentano tutti dei mattoncini nell’edificio post-esotico. Quando esce Il post-esotismo in dieci lezioni, lezione undicesima, si tratta appunto dell’undicesimo titolo, considerando Biografia comparata di Jorian Murgrave come punto di partenza.
Nelle pagine iniziali di Liturgia del disprezzo, il personaggio racconta che, all’età di tre anni, gli è stato insegnato quanto l’indipendenza intellettuale sia fondamentale per sopravvivere: “Ero precoce, ma facevo in modo da nasconderlo – intorno a me si aggiravano adulti che, pur insegnandomi l’indipendenza intellettuale, non mi avrebbero certo permesso di esibirla. Ero precoce in modo occulto; dovevo fingere di continuo uno stato di non-esistenza, di sottomissione, di taciturna obbedienza”. Può dirci qualcosa di più al riguardo?
Gli viene insegnato soprattutto a tramutare il mondo dentro di sé, ad assorbirlo profondamente per poterlo trasformare, così da ridurne le violenze e i veleni. Il ragazzino di questo libro riceve continue lezioni di sopravvivenza. Bisogna sopravvivere in mezzo al fuoco, all’odio, all’orrore. Tutti gli zii che hanno un ruolo nella sua formazione gli danno consigli per il futuro che lui metterà in pratica quando si ritrova prigioniero, picchiato, torturato e interrogato. Gli hanno insegnato a essere un mostro, a superare le avversità e a prolungare la sua esistenza con astuzia, attraverso la scrittura, raccontando storie, mentendo… Da bambino gli sono stati impartiti sistematicamente degli ordini, che lui tiene a mente e integra nelle proprie finzioni disperate: “Non guardare!”, “Non piangere!”. Sono le fondamenta della sua educazione.
Uno degli aspetti più caratterizzanti dell’opera è il senso di pericolo sperimentato costantemente dai personaggi. Cosa rappresenta?
Quali che siano, i personaggi si muovono in un mondo ostile. Le loro differenze fisiche e culturali non vengono tollerate: vengono perseguitati, bruciati con l’acido, massacrati. Si rifugiano in ghetti che presto diventano bersagli militari. Come ho già detto, il sistema di immagini che sostiene questa narrazione è strettamente legato alle realtà storiche, in particolare agli orrori della seconda guerra mondiale, all’annientamento degli ebrei d’Europa e al massacro degli untermenschen, termine con cui i nazisti hitleriani designavano ebrei, slavi e zingari. A queste immagini di primo piano si intrecciano altri genocidi più recenti, spinti da una forza incredibile, sempre rinnovata: l’odio per lo straniero, l’odio per l’altro.
Ci sarebbe anche molto da dire sulla famiglia, così asfissiante eppure così necessaria in tutta l’opera…
In Liturgia del disprezzo vengono messe in luce relazioni familiari estremamente ridotte (la madre e il bambino) che si ampliano nel contatto con zii e zie, trasformandosi in relazioni da clan. Gli zii non appartengono tutti allo stesso clan e, in un certo senso, ciò che li lega è l’appartenenza a “razze” o “specie” aliene, non terrestri. Quindi la famiglia del bambino è innanzitutto una vasta galassia di individui, con morfologia, usanze e capacità intellettuali lontane dalle caratteristiche della specie umana. Pur non essendo un elemento centrale nel racconto, attraverso piccoli accenni e dettagli si intuisce che questi personaggi non sono umanoidi, ma piuttosto (alcuni, almeno) di natura aracnoide. Da qui, la presenza insistente di fili, ragnatele, bozzoli e trame che dominano il paesaggio. Il protagonista, Moldscher, il moldscher, cerca di inglobare la propria differenza di origine in una variante di umanesimo, in un desiderio di integrazione a cui i terrestri si oppongono radicalmente, militarmente… fino a quando, finalmente, la “famiglia” in senso ampio riconquista i propri diritti, con una fusione voluta (e paradossale, e strana) tra “amici” e “nemici”.
In Francia, nel 1987, Liturgia del disprezzo ha ricevuto il Grand Prix de l’Imaginaire. Anche altre sue opere sono pluripremiate (Angeli minori ha ottenuto il premio Livre Inter nel 2000 e il Wepler nel 1999, mentre nel 2014 Terminus radioso ha vinto il premio Page 111 e il premio Médicis). A suo avviso, che ruolo hanno oggi i premi letterari? Ritiene che il desiderio di vincerne uno possa influenzare la scrittura?
È indubbio che alcuni scrittori (anche bravi) pensino al Prix Goncourt, coronamento in Francia di ogni rentrée letteraria di settembre. Ci pensano non solo quando il loro libro viene pubblicato, a metà agosto, ma anche già, probabilmente, durante la fase di scrittura. Per molti essere inclusi nella rosa dei candidati al Goncourt rappresenta un primo traguardo; mai raggiunto da un autore del movimento post-esotico: un segno rassicurante. Il nostro lavoro sfiora il campo d’azione della letteratura ufficiale, senza farvi incursione. Certo però che ricevere un premio resta sempre un riconoscimento gradito. Intanto perché aumenta il numero dei lettori. Dei nostri lettori e dei nostri sostenitori. Di recente, per Vivere nel fuoco, l’ultimo romanzo firmato Volodine, una giuria di critici, scrittori e simpatizzanti mi ha conferito il “Prix du dernier roman” (“Premio dell’ultimo romanzo”). Un gesto amichevole, spiritoso, l’occasione per una piacevole cena a Marsiglia, dove si era riunita la giuria. Decisamente il tipo di premio che fa piacere ricevere!
Sempre parlando di premi, prendiamo ad esempio il Nobel. Secondo il testamento di Alfred Nobel, il premio dovrebbe essere assegnato a uno scrittore che abbia prodotto “l’opera più straordinaria a favore di un ideale”. Ma di che ideale si tratta? Il critico Alexandre Gefen sostiene che le motivazioni degli ultimi premi lasciano intendere un ideale di letteratura come “strumento di azione sociale e politica”, con l’obiettivo di “promuovere la democrazia, la trasparenza, l’empatia e il rispetto, contro pregiudizi legati a disuguaglianze, arroganza e sessismo”. Nel 2021, infatti, il premio è stato attribuito ad Abdulrazak Gurnah per la sua “analisi implacabile e compassionevole degli effetti del colonialismo e del destino dei rifugiati nel divario tra culture e continenti”. Pensa che perseguire certi valori etici possa mettere in secondo piano il valore letterario delle opere?
Sarei incline a pensarla così, in effetti. Ma che valore ha la mia opinione?
Antoine Volodine
Liturgia del disprezzo
ed. orig. 1986, trad. dal francese di Anna D’Elia, pp. 192, € 17,
66thand2nd, Roma 2024“Non ci avevo messo molto a scoprire che l’esistenza non era esattamente una passeggiata”. E del resto, come potrebbe essere una passeggiata un’esistenza ammorbata dall’odore penetrante e onnipresente dei topi, del salnitro che si gonfia a grappoli sui muri, di scalpo e di cordame? Un misterioso interrogatorio fa riemergere ricordi di infanzia e di un’altra reclusione, tema ricorrente nella scrittura di Volodine, e, a fare questa scoperta, è un bambino di tre anni che ha cominciato presto a frequentare “la scuola della vita”.
Uscito in Francia nel 1986, il romanzo è stato appena pubblicato in Italia da 66thand2nd. Come ha dichiarato Volodine in un’intervista di prossima pubblicazione sulla “Revue italienne d’études françaises”, in questi quasi quarant’anni, molte cose sono cambiate: “Nel momento in cui concepivo e scrivevo Liturgia del disprezzo, il sistema di immagini che dominava la memoria collettiva era quello delle due guerre mondiali, delle guerre di liberazione nazionali e, in primo luogo, della Shoah. […] A questo sistema di immagini storiche tragiche si aggiungeva l’orrore dello stalinismo, della deriva dell’Urss e dei gulag. Ricordo che, mentre scrivevo questo libro, il mondo era diviso in due blocchi, in due campi. L’Urss era malata, ma sembrava comunque radicata nel paesaggio per l’eternità”. È su questo “sistema di immagini forti, catastrofiche e tragiche” che si costruisce il progetto del post-esotismo, genere o “edificio letterario” ai margini della cosiddetta letteratura ufficiale, in cui istanze provenienti dalla politica, dalla memoria militante, dal marxismo, dal buddhismo tantrico permettono di mettere in scena echi delle catastrofi del XX secolo, non senza un certo umorismo. I quasi quarant’anni che ci separano dal momento della scrittura, però, non hanno affatto tolto vigore all’opera. Anzi.
Liturgia del disprezzo fa parte di quella categoria di romanzi che secondo Gianfranco Rubino (in Il romanzo francese contemporaneo, Laterza 2012) sembrano allontanarsi dalla realtà per presentare modelli alternativi, immaginari o fantastici. La trasposizione onirica costituisce uno strumento raffinato per descrivere il fallimento delle rivoluzioni del Novecento e gli effetti della catastrofe della storia. Il mondo deformato e frammentario permette di denunciare i traumi del secolo precedente in una narrazione che vede legati passato, presente e futuro: “il passato, il presente, inestricabilmente intrecciati ai fili della sua anima spugnosa. E il futuro, a volte, quando la lucidità si faceva strada a colpi d’accetta fino a raggiungere ciò che restava della sua coscienza”.
teresa.lussone@uniba.it
T. Lussone insegna lingua e traduzione francese all’Università di Bari