recensione di Beatrice Sciarrillo
Rachel Aviv
Stranieri a noi stessi
pp. 288, € 19
trad. it. di Claudia Durastanti,
Iperborea, Milano 2024
Il panorama editoriale è sempre più costellato di testi autobiografici volti a raccontare il proprio vissuto di malattia – sia fisica che mentale – e, di conseguenza, a conoscere meglio sé stessi. Non è facile ricostruire un’esperienza patologica: la malattia è una sostanza liquida, disordinata, che sfugge a ogni tentativo di irreggimentazione. La memoria non riesce a cronicizzarla, la parola la trasforma in qualcosa di diverso ogni volta che ne rende conto. È possibile però usare la scrittura per fare domande sulla malattia, per penetrare nei suoi terreni oscuri e profondi. È questo l’obiettivo di Rachel Aviv, scrittrice americana e collaboratrice del «New Yorker», nel saggio narrativo Stranieri a noi stessi, pubblicato nel 2022 da Farrar, Straus e Giroux, e ora edito in Italia da Iperborea nella collana «I corvi», per la traduzione di Claudia Durastanti.
In Stranieri a noi stessi, Aviv indaga le molteplici forme del disagio mentale e psichico, esplorando il rapporto ambiguo tra malattia e identità, tra modelli psichiatrici predefiniti e il malessere del singolo individuo. L’interesse di Aviv nei confronti dell’universo psichiatrico nasce dall’esperienza vissuta in prima persona quando, a sei anni, fu ricoverata in un ospedale pediatrico del Michigan, a Detroit, e le venne diagnosticata l’anoressia: a quell’epoca, negli Stati Uniti, era la più giovane paziente con una simile diagnosi. Dunque Aviv venne catapultata, ancora bambina, in un contesto ospedaliero fortemente morboso dove ragazze più grandi di lei – «esperte della malattia» – conducevano una pratica ascetica nell’unica «carriera» che desideravano: quella di essere adolescenti malate, iperattive, affamate, in punto di morte. Per Rachel l’ospedale fu un luogo di cura, basata su un subdolo sistema di punteggi e privilegi (solo se ha consumato l’intero pasto a tavola alla paziente è permesso di telefonare i genitori a casa, scegliere le portate dal menù, uscire in permesso), ma anche un’arena di contaminazione: qui una bambina di sei anni invece di imparare a scrivere imparò a essere anoressica, o meglio, ad agire da anoressica.
Guardando all’esempio di quelle ragazze più grandi, e da lei tanto ammirate, Rachel assimilò l’abc dei disturbi alimentari: rifiutarsi di mangiare, nonostante la fame divorante che abita lo stomaco; non sedersi MAI, ma stare SEMPRE in piedi; mettersi le dita in gola per vomitare. Parallelamente, cominciò a sviluppare tutte le paure che di questi disturbi sono causa e conseguenza: non pronunciava i nomi dei cibi ad alta voce perché temeva che nominare un alimento equivalesse all’atto di mangiarlo, non si toglieva le caccole dal naso perché sapeva che, se se le fosse tolte, il suo peso sarebbe calato e allora i medici non le avrebbero concesso il privilegio di telefonare a casa o di scegliere da sé il proprio menù, e così via. Tante regole introiettate osservando le altre pazienti e assecondando il desiderio di diventare come loro. Finché, con l’aiuto di una buona psicoterapia e un avvicinamento forzato al cibo, Rachel cominciò a stare meglio, fu dimessa dall’ospedale e uscì, ancora bambina, dall’incubo della malattia.
Ora, da scrittrice e giornalista, specializzata in particolare su macrotemi come medicina, educazione e giustizia, Aviv s’interroga sulla propria guarigione: perché quella bambina di sei anni non fece dell’anoressia il suo personale strumento di comunicazione con il mondo e di conoscenza del proprio sé? Perché superò e sopravvisse a una malattia così fagocitante da diventare letale per altre pazienti? «Può essere che fossi troppo giovane per far attecchire il comportamento anoressico in me», riflette, evidenziando come la sua emulazione della malattia, accompagnata da una minore consapevolezza dei meccanismi patologici, le permise di non rimanere incastrata in una storia che altri avevano creato per lei.
A differenza della maggior parte delle opere contemporanee, però, Stranieri a noi stessi non sfocia nell’autobiografismo: già a partire dal secondo capitolo, Aviv tace su se stessa per raccontare la vita di cinque persone che, incapaci di liberarsi dalle proprie ossessioni, sono rimaste imprigionate negli stretti e vincolanti confini di una diagnosi psichiatrica. Dopo la lettura di testimonianze scritte – diari, quaderni, manoscritti inediti di alcuni pazienti – e dopo aver raccolto la testimonianza orale dei parenti e dei medici che li avevano avuto in cura, Aviv si fa portavoce delle loro storie: Ray, paziente schizofrenico tormentato dal proprio fallimento, sulla cui pelle si è riverberato lo scontro tra la psicoanalisi e la psichiatra neurobiologica degli anni Settanta; Bapu, una donna indiana, oppressa dai tradizionali ruoli femminili, la cui maniacale adorazione verso Krishna è stata classificata secondo criteri diagnostici imposti dalla cultura occidentale; Naomi, la cui condizione di donna nera e povera non ha permesso di accedere alle cure mediche e di essere riconosciuta come soggetto dotato di insight (tradotto in italiano come “introspezione”, indica il grado di consapevolezza di malattia); Laura, brillante studentessa di Harvard che, dopo aver ricevuto diagnosi di ogni tipo e dopo aver provato diciassette psicofarmaci, non è più stata capace di costruirsi un sé coerente e consapevole. E poi c’è Hava, un’adolescente «bellissima» e dai «lineamenti affilati» che Rachel ha incontrato quando era ricoverata a Detroit.
Consapevolmente e visceralmente abitata dalla malattia, Hava ha cercato per tutta la vita di capire sé stessa attraverso il linguaggio terapeutico, appuntando i propri pensieri quotidiani su un diario. Come lei, anche altri protagonisti di questi cinque racconti hanno avvertito e assecondato l’impulso di scrivere di sé e della propria malattia, pur consapevoli che il linguaggio che avevano a disposizione non era adatto a comunicare con il mondo dei «sani». Lo stigma attorno alla malattia mentale nasce proprio dalla mancanza di un vocabolario esistenziale per parlare della sofferenza psichica, per entrare in relazione con l’altro e ascoltarlo nel momento in cui chiede aiuto per capire se il sentimento che sente dentro di sé è reale. Se l’altro non viene visto e ascoltato, ma solo diagnosticato, medicalizzato, sottoposto a terapie farmacologiche, ogni forma di cura diventa inattuabile.
Con una prospettiva universale, il più possibile inclusiva di ogni cultura, etnia, religione e genere, Rachel Aviv esplora il vasto universo della malattia mentale, spogliandola da ogni forma di compassione e da ogni tentativo di dogmatizzazione della realtà, per riflettere più a fondo sui limiti della mente umana nel conoscere sé stessa e della collettività di interessarsi all’esperienza del singolo.