Paradossi e potere del linguaggio. Percival Everett

di Cristina Iuli

Autore di ventitré romanzi, distinguished professor di scrittura creativa alla University of Southern California, addestratore di animali – cani, cavalli, muli e il corvo Jim Crow, co-autore di Cancellazione (Instar Libri, 2007; La nave di Teseo, 2024; cfr. “L’Indice” 2024, n. 6) –, pescatore, pittore, Percival Everett è scrittore del paradosso, che nella sua prosa diventa perno logico e strumento retorico, cartina di tornasole utile a rivelare le debolezze di ragionamento e i limiti – intellettuali ancor più che ideologici – del pregiudizio. “È solo dopo essere riuscito a disarmare il lettore con lo humour, che posso affrontare questioni serie” – dichiara nel corso di un’intervista per Nbc. E lo humour, in effetti, è l’altro strumento chiave della satira, che caratterizza quasi interamente la sua produzione a partire dal romanzo del 2007, Cancellazione, dove bersaglio è il pregiudizio progressista sulla natura dell’esperienza – non solo letteraria – afroamericana. L’opera, con il suo romanzo nel romanzo, è un irresistibile esempio di metaletteratura che resterà nella storia della narrativa americana del XXI secolo come sferzante critica delle contraddizioni generate dalla fatale combinazione di pregiudizio razziale, rimozione storica, malafede culturale, media e mercato. La malafede culturale alla base di molte iniziative di censura e autocensura espressiva è una delle manifestazioni più spinose e ovvie della struttura razzista, violenta e mortifera istitutiva degli Stati Uniti d’America, di quel loro passato che non passa, che non è nemmeno passato – come scriveva William Faulkner –; di una società che non riesce a emanciparsi dal razzismo e a innescare cambiamenti che non siano solo di facciata. Per questo nei suoi romanzi Everett utilizza la famigerata “parola che inizia per N”: in spregio e contro la rimozione del conflitto e della violenza storica che si realizza nella censura linguistica; “la uso”, sottolinea nell’intervista già citata, “Perché dico la verità”. Così se Everett sceglie di percorrere la strada culturalmente più difficile e politicamente più “scorretta” è perché vuole, da un lato, farci sentire lo sfregamento della verità storica sulla narcotizzazione linguistica e, dall’altro, mostrarci l’enorme potere del linguaggio nell’aprire vie d’uscita e di libertà. Esempio brillante di questa sua filosofia pratica applicata ai simboli è il bellissimo racconto del 1996, The Appropriation of Culture (L’appropriazione della cultura) che mette in scena, in tipico stile Everett, la riappropriazione dei simboli del suprematismo sudista da parte del protagonista afroamericano, in un crescendo che alla fine porterà alla rimozione della bandiera confederata dal locale Campidoglio.

Il potere del linguaggio si esercita quindi attraverso la scrittura, facendo leva sull’instabilità che gli è connaturata. Il suo correlato è la potenzialità sovversiva della lettura. Questo è il punto dell’alfabetizzazione, e questa è la grande lezione di Everett (e della teoria critica del secondo Novecento), che spiazza sempre i lettori rovesciando nel paradosso senso comune, ideologia e pregiudizio.

James, il romanzo dello schiavizzato Jim, è un esercizio di riappropriazione e di controllo sul linguaggio da parte del narratore che inizia a scrivere la propria storia. La sua voce è profondamente ironica, ma raramente umoristica; è più tragica che divertente, perché, a differenza del romanzo di Twain, quello di James implica che le avventure del fuggiasco schiavizzato prendano una direzione che non si risolve in farsa nemmeno quando anche Huck è coinvolto o quando il dramma è alleggerito da spunti comici o grotteschi. Dopotutto, questo è l’unico romanzo della letteratura americana a chiudersi con un’insurrezione di schiavizzati, l’atto con cui un gruppo demografico si autodetermina come soggetto storico e per mezzo del quale la cosa Jim si autodetermina come individuo e soggetto sociale, diventando James. È un finale degno di Django di Quentin Tarantino. Ma mentre Tarantino ci offre il piacere di una fantasia che inscena la catarsi storica, Everett, nell’immaginare la storia di James, ci costringe a confrontarci con l’atrocità dello schiavismo in tutte le sue dimensioni materiali, fattuali e emotive e a vederne gli effetti sulle vite delle persone. Ci mostra, in quelle loro storie mai scritte, le risorse e le intelligenze degli schiavizzati, gli ostacoli nelle loro vite, i limiti e le possibilità concrete del loro successo. Lungi dall’appagarci con una catarsi, il romanzo di James ci lascia solo l’alternativa aperta di una storia raccontata per la prima volta.

Nel corpus letterario di Everett, lo slittamento nella qualità del paradosso, da grottesco a tragico, definisce un’evoluzione stilistica che, pur attraversando tematiche molto eterogenee (tra cui la violenza coloniale, la violenza del capitalismo su ambiente e animali, il rapporto tra padri e figli), si è soffermata in modo decisivo su questioni relative al razzismo, all’esercizio del potere sui corpi, sulle strutture sociali e culturali che impediscono la piena realizzazione degli individui, sull’uso dei simboli nell’apparato dei media, sul rapporto tra potere, mercato e linguaggio. In questa traiettoria, che unisce i più grotteschi Cancellazione e Non Sono Sidney Poitier (Nutrimenti, 2010) ai più tragici Gli alberi (La nave di Teseo, 2023, cfr. “L’Indice” 2023, n. 12) e James, la violenza subita dagli afroamericani nel corso della storia degli Stati Uniti è irredimibile e, come ha sottolineato Julian Lucas nella sua recensione a Gli alberi sul “New Yorker” (20 settembre 2021), è demarcata dalla disseminazione di corpi di afroamericani violati, mutilati, o assassinati, quasi Everett volesse buttare in faccia ai suoi lettori la domanda che Mamie Till-Mobley dovette porsi nel 1955, quando decise di esporre al pubblico la bara aperta con il corpo straziato di suo figlio, il quattordicenne Emmett: “In che modo posso costringere l’America a vedere la morte dei Neri?”

Oggi possiamo congratularci con La nave di Teseo per essere diventata, dal 2020, la casa editrice di Everett, ma dobbiamo anche ricordare che è stato solo grazie allo scouting e al coraggio della piccola editoria indipendente – in questo caso di Instar Libri e Nutrimenti – che le sue opere sono arrivate in Italia quasi venti anni fa, molte attraverso la voce di Marco Rossari, scrittore a sua volta e tra i migliori traduttori italiani.

cristina.iuli@uniupo.it
C. Iuli insegna letteratura angloamericana all’Università del Piemonte Orientale

Lo schiavo Jim prende la parola e diventa James

di Federica Fugazzotto

Percival Everett
James
ed. orig. 2024, trad. dall’inglese di Andrea Silvestri,
pp. 333, € 20,
La nave di Teseo, Milano 2024

Su quale sia il romanzo fondante della letteratura statunitense si potrebbe dibattere a lungo. Ernest Hemingway però non aveva dubbi. A suo dire, l’origine del romanzo americano moderno andava cercata in Le avventure di Huckleberry Finn: “È il nostro miglior libro. È alla base di tutta la scrittura americana. Non c’era niente prima. Non c’è più stato niente di così valido dopo”. Considerata l’influenza esercitata da Mark Twain sul panorama letterario statunitense (e non solo), non stupisce che uno degli autori più lucidi e taglienti dei nostri tempi quale Percival Everett abbia deciso di confrontarsi con il suo spettro.

Infatti, Everett – da ammiratore di Twain – ha precisato che il suo romanzo non va percepito come un attacco personale né come un’insinuazione che il libro di Twain sia in qualche modo manchevole. Al contrario, Everett ama pensare di essere riuscito, durante il processo di scrittura di James, a intavolare con Twain una conversazione. Su cosa? Sulla razza, l’identità e la storia. Se Everett riconosce al collega il merito di averci mostrato per la prima volta una giovane America bianca capace di mettere in discussione dogmi secolari su razza e schiavitù sfidando l’ordine prestabilito, è impossibile non notare come la rappresentazione di Jim, schiavo in fuga e compagno di avventure del giovane Huck, sia stereotipata, priva di chiaroscuri psicologici e di perspicacia intellettuale. “Non biasimo Twain per questo, non aveva gli strumenti per raccontare la storia di Jim, né era interessato a farlo”, ha dichiarato Everett, “il suo compito era quello di raccontare la gioventù americana, il mio è quello di raccontare la storia di un uomo nero”.

Everett risponde al Jim sempliciotto e ingenuo di Twain con James, uomo che lotta per riappropriarsi di libertà, identità e storia brandendo un’unica arma: il linguaggio. Sovvertitore di aspettative e stereotipi per eccellenza, Everett ci racconta di schiavi che alternano con maestria registri completamente diversi a seconda delle situazioni. Sono in grado di esprimersi in maniera incisiva ed eloquente ma, per evitare le ripercussioni di padroni che si sentirebbero minacciati di fronte a uomini e donne neri senzienti, hanno sviluppato, perfezionato e tramandato di generazione in generazione una lingua sgrammaticata e infantile: il “gergo degli schiavi”. Manipolando il linguaggio, non solo si difendono dall’insicurezza bianca ma compiono anche il primo, fondamentale passo verso l’autodeterminazione e la costruzione di una comunità impenetrabile ai bianchi, troppo arroganti per sospettarne l’esistenza. “I bianchi si aspettano che parliamo in un certo modo e non deluderli su questo fronte non può che esserci d’aiuto […] Se si sentono inferiori, gli unici a soffrine siamo noi. O forse dovrei dire ‘Se non si sentono superiori’”, spiega il protagonista alla figlia. James però sa che il potere delle parole non si esaurisce nella comunicazione orale ma passa anche, e soprattutto, attraverso la pagina scritta. Il personaggio di Everett è l’opposto di quello di Twain: ha imparato a leggere e scrivere, è colto e determinato a rivendicare il suo posto nel mondo. L’anima del romanzo è proprio nel percorso di riconquista della narrazione da parte di un uomo nero in lotta per emanciparsi dalla vita che i bianchi hanno scritto per lui e farsi autore, in senso simbolico e letterale, della propria esistenza. È così che Everett trasforma il Jim rassicurante e innocuo che abbiamo imparato a conoscere con Twain in James, un uomo armato di matita e di una storia da raccontare: “Il mio nome è James […] un uomo che sa leggere e scrivere, un uomo che non si accontenterà di riferire la propria storia ma la racconterà di suo pugno”.

Con la consueta ironia che spariglia i punti di vista, Everett attornia James di cantanti bianchi in blackface autori di brani nostalgici sulla vita in schiavitù, schiavi che amano le catene, apparizioni oniriche e deliranti di Voltaire e Locke. Ne emerge il ritratto di un Sud allo sbando, un Sud spaventato che si ancora al passato per paura di naufragare nel futuro crogiolandosi nell’ostinata e beata inconsapevolezza di essere già un relitto sul fondo del Mississippi.

federica.fugazzotto@gmail.com
F. Fugazzotto è studiosa di letteratura angloamericana