Contro la guerra piccoli frammenti in cerca di voce
di Giulia Baselica
Katja Petrowskaja
La foto mi guardava
ed. orig. 2022, trad. dal tedesco di Ada Vigliani
pp. 259, € 24,
Adelphi, Milano 2024
Il lettore che già conosce l’intenso romanzo Forse Esther (Adelphi, 2014) – recensito da Anna Chiarloni (“L’Indice”, 2014, n. 10) – insignito di prestigiosi riconoscimenti, come il Premio Strega Europeo (2015), nell’originale raccolta La foto mi guardava scoprirà un nuovo aspetto stilistico e narrativo della scrittrice di lingua tedesca, ma di origine ucraina, Katja Petrowskaja. Il volume riunisce 57 testi brevi accompagnati da altrettante fotografie, scelte dall’autrice e tratte dall’archivio di famiglia e da altri archivi, o da volumi e cataloghi fotografici, originariamente pubblicati fra il 2015 e il 2022 nell’edizione domenicale del quotidiano “Frankfurter Allgemeine Zeitung”. Sulle immagini le rapide, ma dense e compiute narrazioni della scrittrice si soffermano appena, non di rado per rivelare l’ingannevole impressione suscitata nel lettore ignaro del contesto in cui la fotografia si colloca e, soprattutto, del più ampio scenario che si sviluppa di là dai bordi dell’immagine stessa. Le parole di Katja Petrowskaja raccontano ciò che la fotografia nasconde, dissimula o trasforma, creando un effetto di spaesamento che presto cede alla meraviglia, alla commozione, alla rabbia o alla tenerezza. Il brano intitolato La chiave d’oro commenta, per esempio, una foto che ritrae la famiglia dell’autrice. Nei sorrisi dei genitori, ancora giovani (era il 1977) e dei due figli, la scrittrice coglie lo schermo che interponevano a una realtà di privazioni e di fatiche: “Mia madre, che in questa foto sembra una regina, lavorava allora sei giorni la settimana per dodici ore al giorno e arrivava a casa solo la sera tardi. Guadagnava per mantenerci tutti”. Sulla sua famiglia incombeva la minaccia di un tragico futuro: al padre, che nella foto abbraccia il figlio maggiore, “era stata negata qualsiasi opportunità di lavoro, e lui, studioso nato e docente universitario, trascorreva la vita in uno studiolo all’interno di questo appartamento e lì scriveva i suoi libri”. La piccola Katja sorride gioiosa, tiene il suo gatto fra le braccia: è “fermamente convinta di essere Alice nel Paese delle Meraviglie” e di possedere la chiave d’oro che da Alice è passata nelle mani di “Buratino [sic], il Pinocchio russo, e che le consente tuttora di ritrovare la ‘porta segreta che si apre sull’infanzia’”. Di altre, eloquenti immagini fotografiche la scrittrice pone in rilievo una particolare cornice narrativa o un peculiare aspetto della ricezione sociale di un fatto singolare o, ancora, l’inattesa rilettura di un determinato evento. Così Samantha nello spazio rievoca una piccola storia oggi dimenticata e tuttavia, per il suo valore apologetico, capace di irrompere nelle coscienze di noi testimoni di una tragica contemporaneità. Nel novembre del 1982 Samantha Smith, una bambina statunitense, scrive una lettera a Jurij Andropov, segretario generale del partito comunista sovietico, dichiarando di non accettare “la guerra, la violenza e le incomprensioni tra gli uomini” e domandandogli esplicitamente se è “a favore della guerra”. Alcuni mesi dopo Samantha riceve la risposta del capo di stato sovietico, che la invita a visitare il suo paese. La bambina è accolta festosamente e la sua presenza segna un’autentica svolta nei rapporti fra le due potenze. Ma la graziosa piccola ambasciatrice di pace non diventerà adulta: nell’agosto del 1985 perderà la vita in un incidente aereo. La fotografia, scattata dal padre, eterna la sua figura di bambina sorridente accanto a un poliziotto sovietico: guardando questa foto, la scrittrice torna a “credere nelle forze sovrannaturali dei bambini”.
Se in Forse Esther il tema dell’ebraismo è centrale – osserva Anna Chiarloni – le narrazioni che compongono La foto mi guardava delineano più percorsi. Alcuni di essi ci costringono a un doloroso quanto necessario confronto con la realtà della guerra, che non è soltanto desolante espressione di insensata violenza, ma talvolta anche manifestazione di generosa quanto folle protesta civile. Katja Petrowskaja evoca per esempio l’atto eroico compiuto dalla poetessa e traduttrice dissidente Natal’ja Gorbanevskaja, che nel 1968, insieme ad altre sette persone, protestò contro l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, una protesta animata non soltanto dal sentimento di solidarietà con i cechi, ma anche, se non soprattutto, dall’effetto prodotto, nella “coscienza storica profondamente morale dei manifestanti”, da quella violenza, sentita come “una loro personale occupazione”. E la figura di Natal’ja è anche l’emblematica rappresentazione del femminile, qui declinato in percorsi spesso impervi e tortuosi: la profuga siriana avvolta nella dorata coperta isotermica, e tratta in salvo su un’imbarcazione, richiama la Venere di Botticelli, a sua volta ispiratrice dell’Hymne à la Beauté di Baudelaire; l’anziana signora sovietica, addetta al servizio ascensori in un ospedale pediatrico nei pressi di Mosca e seduta sul seggiolino di una seggiovia, è una strega buona sospesa in cielo; la giovane donna, che incede verso una meta non visibile, passa accanto a una colonna di fumo nero, forse presagio dell’imminente fine del breve disgelo chruščёviano. Altri percorsi ancora conducono a ignoti personaggi, trasfigurati da una forza misteriosa che proviene dai mondi dei miti e delle fiabe e dai regni delle religioni. Incontriamo, allora, il minatore del Donbass che ha occhi bianchi e l’espressione severa dei santi raffigurati nelle icone; o la giovane donna ungherese, dalla trasognata corporeità, autentica come l’“innocente irraggiare della Madonna”; o, ancora, la donna ceca che, raggomitolata su sé stessa e sfiorata dalle foglie di felce, richiama un’antica credenza ucraina: una sola volta nell’anno, la notte di Ivan Kupala, durante il solstizio d’estate, la felce fiorisce e i ragazzi e le ragazze saltano oltre il falò acceso e si immergono nudi nelle acque del fiume per poi correre nei boschi alla ricerca del fiore di felce. Questi brevi testi creano un’autobiografia, fatta non soltanto di immagini fotografiche, bensì anche di visioni custodite nei recessi della memoria e suscitate dallo sguardo interiore. E nel contempo sono la biografia collettiva di una vasta umanità non divisa da confini geografici né da delimitazioni della storia e protagonista di uno stesso e infinito racconto che si ripete, con il suo insegnamento andato perduto. E allora interviene a salvarlo la scrittrice Katja Petrowskaja, con la sua laica intenzione di preghiera: “Vorrei opporre alla guerra queste miniature, questi piccoli frammenti, alla ricerca di una voce”.
giulia.baselica@unito.it
G. Baselica insegna lingua e letteratura russa all’Università di Torino
Più intensità che verità
di Marco Maggi
Il protagonista di un racconto di Clarice Lispector, ricordato da Katja Petrowskaja in La foto mi guardava, è un antropologo francese che si addentra nella foresta equatoriale in cerca della “donna più piccola del mondo”. Quando crede di averla trovata in mezzo a una tribù di pigmei, la riprende con la macchina fotografica. Giunto in Europa, il ritratto suscita reazioni ora compassionevoli ora di rifiuto, a commento delle quali Petrowskaja conclude: “Anche l’osservazione – così come l’amore per il genere umano – conduce sempre all’appropriazione”. A modo loro, costituiscono tentativi di appropriazione le cinquantasette prose di commento a fotografie pubblicate sulla “Frankfurter Allgemeine Zeitung” da Petrowskaja, autrice rivelatasi con Forse Esther (2014), memoir nel quale la fotografia già giocava un ruolo decisivo nella ricostruzione della genealogia familiare. Il titolo italiano, fulminante esordio del primo pezzo della raccolta, potrebbe infatti essere modificato in La foto mi riguardava: come nel buffo racconto Infanzia al contrario, dove l’autrice si convince di essere la bambina ritratta in una fotografia ritrovata in una valigia, e s’inventa addirittura un passato di mancinismo con conseguente supposta rieducazione (anche l’evocazione di Lispector, autrice di origine ucraina come Petrowskaja, pare dipendere da analoghe dinamiche di identificazione). O nel pezzo intitolato Regina della catena di montaggio, dove la voce narrante s’illude di aver rintracciato la proprietaria della vistosa chioma cotonata presente in una vecchia immagine dell’industria tedesca. “Una fotografia delle officine Krupp o Aeg non dice quasi nulla in merito a queste istituzioni”, scriveva Walter Benjamin, invitando a corredare le immagini di didascalie; le “didascalie” di Petrowskaja non riescono però in alcun modo a dissipare il mistero delle immagini: si direbbe anzi che la descrizione tragga linfa dalle disavventure dell’appropriazione.Un simile fallimento, dal quale discende un’apertura dello spazio dell’immaginazione, Petrowskaja lo chiama “adozione” (la distinzione è stata introdotta da Joan Fontcuberta ed è plausibile che l’autrice ne sia a conoscenza). Come nell’adozione, il tempo delle fotografie è lacunoso, presenta dei vuoti che possono essere colmati soltanto con l’elaborazione fantastica. Storia adottata è costituita da una sequenza di illazioni intorno allo sguardo di un uomo con i baffi rivolto a una donna con gli occhiali scuri sullo sfondo della Berlino del novembre 1989. “Qualche settimana dopo la pubblicazione di questo articolo – chiosa l’autrice – ricevetti una lettera da Roma, da parte di Anna-Maria L. Mi scriveva che la donna nella foto era lei, che non possedeva più nessuna fotografia di quei momenti davanti al Muro, tranne, adesso, la mia, e forse, si domandava, sarebbe stato meglio se la banale realtà della sua apparizione non avesse posto limiti alla mia fantasia”.
Piuttosto che nella prospettiva dell’identificazione, il “riguardare” delle fantasiose descrizioni di Petrowskaja va allora inteso nel senso dell’iterazione e dell’intensificazione, come un “ri-guardare” che si oppone a quella che (sempre Fontcuberta) è stata definita la “furia delle immagini” (il saggio con questo titolo è stato recensito su “L’Indice” del maggio 2018): “Le immagini ci sommergono da ogni parte: dai giornali, dai libri, dai manifesti pubblicitari, dalle esposizioni, dallo smartphone e da Internet. Parlare di una singola foto rappresentava da parte mia il tentativo di fermarmi e di soffermarmi”. Più che alla verità, le soste di Petrowskaja davanti alle fotografie mirano all’intensità. E come nei pigeongrammes, fotografie miniaturizzate di messaggi affidati a piccioni viaggiatori durante la prima guerra mondiale, o nell’immagine di copertina del Barone rampante di Calvino (Festa delle fronde), “non si sa dove tocchi terra la fiaba e dove s’alzi in volo la realtà”.
marco.maggi@unich.it
M. Maggi insegna letterature comparate e teoria della letteratura all’Università della Svizzera italiana