Kornel Filipowicz
Il gatto nell’erba bagnata
Racconti
a cura di Andrea Ceccherelli
pp. 288, € 18
Marietti 1820, Bologna 2023
Wisława Szymborska, a buon diritto conosciuta e apprezzata per le sue poesie, è invece meno nota per le sue Letture Facoltative: una rubrica di recensioni – o meglio, feuilletton, come teneva a specificare – concise e godibilissime, raffinate e ironiche, in cui era solita recensire libri meno importanti o poco noti e trascurati dalla critica ufficiale, divagando spesso in interessanti excursus. Si vorrebbe prendere a prestito la sua penna recensendo Il gatto nell’erba bagnata, ovvero la prima raccolta di racconti di Kornel Filipowicz pubblicata in Italia, a cura di Andrea Ceccherelli per i tipi di Marietti Editore. Certo è che in questo caso non si tratta affatto di un libro da “scaffale basso” a cui la poetessa concedeva volentieri la sua curiosità (anche se il racconto breve è un genere spesso ingiustamente svalutato) quanto dell’opera di uno scrittore da lei profondamente stimato (tanto che, quando nel 1996 le fu assegnato il Nobel per la letteratura, aveva detto agli amici che sarebbe stato lui a meritarlo) nonché di colui che fu il suo compagno per un ventennio.
Altrove Filipowicz è relativamente conosciuto, ed è già stato tradotto in numerose lingue europee, ma per il pubblico italiano è autore ancora ignoto, piuttosto trascurato perfino dalla cerchia di specialisti. Si tratta invece di uno dei più importanti prosatori polacchi del dopoguerra, maestro della forma breve, ma anche poeta e sceneggiatore, la cui opera in Polonia fu una presenza discreta e costante, divenuta più intensa negli ultimi anni, dopo la pubblicazione della sua corrispondenza privata proprio con Wisława Szymborska.
Nato nel 1913 a Tarnopol (oggi Ternopil, in Ucraina) e trasferitosi dalla Polonia rutena alla Slesia di Cieszyn, dove conobbe il poeta Julian Przyboś, Kornel Filipowicz studiò biologia all’Università Jagellonica e collaborò con numerose riviste letterarie. A Cracovia, le frequentazioni avanguardiste e antifasciste furono coerenti con le sue gravitazioni politiche, vicine agli ambienti di sinistra, ma improntate a una consapevole prudenza nei confronti del comunismo.
Il volume in oggetto è frutto del lavoro di diversi traduttori, ma, passando da un testo all’altro, se ne apprezza la gradevolezza della lingua senza avvertire – per così dire – il “cambio di mano”. Nell’antologia, che è in grado di offrire un ritratto sufficientemente sfaccettato del narratore Filipowicz, si intuiscono i temi ricorrenti della sua scrittura: la provincia, gli animali, la guerra, la tematica ebraica. Eppure, come evidenzia il curatore nella nota di lettura, questi temi fanno solo da sfondo: «in realtà i protagonisti dei racconti di Filipowicz sono i sentimenti: l’amore, la tristezza, il rimpianto, l’orgoglio, la vergogna, l’odio»: sentimenti tanto più presenti, nella scrittura, quanto impliciti. L’apparente ordinarietà delle storie affonda quindi in problematiche più ampie, lasciando intuire la complessità di ciò che accade dentro di noi e sotto la superficie di ciò che fuori di noi osserviamo. Così, l’arrivo di una incantevole farfalla dalla finestra è in realtà occasione di riflettere sul contrasto tra la capacità di ammirazione disinteressata dell’anzianità e la giovanile brama di possesso (Farfalla rara), mentre nell’osservazione di una coppia di innamorati protrattasi negli anni si avverte lo sguardo del naturalista (Ciò che è unito); e forse non stupisce che fra i più vividi protagonisti delle contemplazioni di Filipowicz figurino gli animali: il suo cane, che nutre grande antipatia per i tedeschi (Kali), o il gatto Murder, la cui indole felina è descritta magnificamente nel racconto che dà il titolo alla raccolta.
Lo stile semplice, chiaro e concreto dell’autore colpisce talvolta con una leggera ironia, come nel racconto Il cane della vedova Wurm, che narra della proprietaria di un piccolo cane rognoso e obeso, o nel racconto Il nostro Kapò Hans Muffke dove, descrivendo lo spiccato senso dell’umorismo del protagonista eponimo, lo scrittore può affermare che «quando il kapò è una persona perbene, umana, spiritosa, la vita nel lager è più leggera, ed è più facile sopportare anche le cose peggiori». In un lager, Filipowicz fu davvero prigioniero (venne arrestato dalla Gestapo nel 1944) e d’altronde gran parte dei suoi racconti rivelano un forte taglio autobiografico. A fornire l’ispirazione può essere un ricordo di gioventù (Io non ti amo!) o una cittadina di provincia dove si organizzano incontri letterari (La mia amata, orgogliosa provincia). Ancora, l’eloquente silenzio del padre di fronte ai rigurgiti antisemiti che accompagnano la sconfitta di una partita di calcio può trasformare il racconto in un’eccezionale riflessione sulla psicologia delle masse (Mio padre tace), mentre il ricordo di una gita in barca (Filipowicz era anche un pescatore e grande amante della natura) può chiudersi con un finale spiazzante, come accade in certe poesie di Szymborska (La ragazza con la bambola, ovvero il bisogno di tristezza e solitudine).
Leggendo questi racconti si riscopre con gioia che non servono grandi avvenimenti esterni per sperimentare qualcosa. Trattando con serietà questioni apparentemente banali, la scrittura di Filipowicz ci mostra la vita ricca e profonda che si cela dietro ogni cosa. Non resta che augurarsi che presto si possa leggere altro di questo autore facoltativo, in traduzione italiana.
Stefania Spinelli è dottoranda in Letteratura polacca all’Università di Torino