di Daniele Zovi
Mi sono rimesso a camminare con Henry David Thoreau. Naturalmente ho solo immaginato di averlo al mio fianco, visto che è vissuto più di cento anni fa in un altro continente. E tuttavia l’effetto che mi fanno i suoi libri rimane questo: a leggere le sue annotazioni, le sue emozioni, mi pare di essere con lui a condividerle. Ho sempre pensato a Thoreau come a una sorta di capostipite di noi camminatori, un apripista di quel procedere a piedi nella natura che oggi è diventata un’attività normale e discretamente diffusa, ma ai suoi tempi deve essere sembrata una notevole stranezza. Ma “Fiori selvatici” aggiunge qualcosa di più e di molto consistente all’immagine che avevo di lui e riguarda solo parzialmente la competenza botanica. Il libro è costruito mettendo insieme osservazioni e descrizioni raccolte nei Journal, i suoi diari dedicati alle esperienze di molti anni nel territorio della natia Concord, accompagnate da oltre duecento illustrazioni in bianco e nero di Barry Moser. Lo splendore dei disegni riecheggia la raffinatezza degli scritti, dialoga con loro e conferma che il tratto di matita, di china, di pennello restituiscono al fiore, oltre che la sua forma, come farebbe la fotografia, anche in qualche misura la sua anima. Si avverte, sfogliando le pagine di questo libro, una costante ricerca di armonia tra testo e immagini e in questa composizione le parole di Thoreau si trovano in ottima compagnia.
In molti passaggi dei diari le osservazioni sembrano essere quelle di un detective: dettagliate, scrupolose e originali. In altri gli aspetti delle piante messi in evidenza tendono di più a sottolineare il messaggio spirituale contenuto nella natura, anzi sembra che la tensione dell’autore, il vero interesse ultimo, sia proprio quello di cogliere l’anima delle cose viventi e anche la loro relazione con le altre specie, sia vegetali che animali. Ed è quello di cui si sta occupando anche la scienza contemporanea. Da questo punto di vista Thoreau, considerato all’epoca in cui viveva un visionario, è ancora una volta un precursore di molti di quei movimenti filosofici e politici che hanno caratterizzato il secolo scorso e i giorni nostri e che hanno come fondamento un diverso rapporto con l’ambiente.
In “Fiori selvatici” colpisce l’intensità dello sguardo, quell’attenzione costante verso un mondo vegetale altrimenti quasi sempre snobbato. I vegetali, anche quelli che normalmente passano inosservati, vengono descritti con una cura che assomiglia molto all’amore. Così i fiori del cardo “assomigliano a delle coccarde sulla bruna terra”, oppure “ah le ninfee, sembrano barche!” e anche “nei prati è tutta un’esplosione di violette, alcune più scure, altre tendenti al lilla. Le gocce di rugiada, catturate dal sole di mezzogiorno, luccicano sulla Drosera rotundifolia, meravigliosa da osservarsi a distanza ravvicinata”. Ecco, è la distanza a fare la differenza. L’Autore non si risparmia, non solo guarda da vicino ma lo fa in tutte le stagioni, a tutte le ore e con qualsiasi tempo. “Sono grato di questa pioggia che non accenna a diminuire poiché mi permette di godere di questa esperienza”.
Nel leggere queste pagine ho avuto spesso la sensazione che questo modo di osservare sia quasi un lasciarsi andare o, meglio, aprire tutti i sensi in modo che la conoscenza diventi un’esperienza profonda. Così dei fiori della pogonia scrive “il loro colore desta il mio interesse. Le tinte del rosso ci rimandano a qualcosa di raro e prezioso, è il colore del sangue”; alla fine di luglio annota “Sbocciano le ultime rose lungo il fiume, di un colore rosa pallido ma oltremodo delicato che conserva la memoria di quei fiori”; e a settembre “Le migliaia di cavallette che mi saltano davanti riflettono bagliori di luce”.
Anche l’udito prende il suo spazio “Il canto terrestre del grillo sovrasta tutto, sempre più spesso si ode il caldo ronzio della locusta” e il gusto “Le mele erano piuttosto succose e gradevoli al gusto, malgrado il loro aspetto ruvido e rugginoso e me ne sono riempite le tasche. Gli scoiattoli le avevano scoperte prima di me”.
Ma sull’olfatto a me sembra che Thoreau esprima un approccio ancora più raffinato e sicuramente difficile da trovare in letteratura. Maggio: “nell’aria mi giungono i sentori, come di burro fresco, dei boccioli di crespino al di là delle rocce, il terreno è cosparso dei grappoli delle antere femminee dei frassini”. Luglio: “Era tempo che attendevo l’arrivo delle note speziate dell’Ambrosia artemisiiflora per insaporire quest’estate in un certo senso sciapa o talmente stucchevole da venirmi a noia”. Agosto: “Ho appena annusato l’odore di una mela che mi ha portato con la mente ai giorni futuri in cui saranno ammucchiate nei frutteti e nelle fabbriche di sidro”. Settembre: “Com’è autunnale il profumo dell’uva matura ai bordi della strada!”
Da questo libro s’impara che non serve andare troppo lontano perché ogni territorio, anche quello vicino a casa, a guardarlo da vicino con attenzione, con empatia per gli elementi che lo costituiscono, può essere una infinita fonte di bellezza e di emozione.