Contrappassi danteschi nel deserto libico
di Cristina Lombardi-Diop
Ghebreyesus Hailu
L’ascaro
Una storia anticoloniale
ed. orig. 1950, trad. dal tigrino di Uoldelul Chelati Dirar,
prefaz. di Maaza Mengiste, postfaz. di Alessandra Ferrini,
pp. 140, € 15,
Tamu, Napoli 2023
Con L’ascaro. Una storia anticoloniale, scritto nel 1927 in tigrino e pubblicato nel 1950, abbiamo un esempio inedito di letteratura africana anticoloniale nel contesto italiano. Dopo un lungo oblio e a quasi un secolo di distanza dalla sua stesura, il volume è finalmente disponibile al lettore italiano grazie al lavoro di traduzione e di cura dello storico Uoudelul Chelati Dirar.
La pubblicazione di questo breve e straordinario romanzo segna un momento importante per la cultura postcoloniale. Non solo perché l’autore, il clerico Abba Ghebreyesus Hailu (1906-1993), è un esempio illustre di intellettualità africana all’incrocio di aree culturali coloniali “in contatto” – secondo la fortunata formulazione di Mary Louise Pratt. Non solo per il significato che questo testo riveste per la letteratura tigrina, essendo il primo romanzo scritto in tigrino e tra i primi a essere scritto in una lingua africana. Non solo perché la voce degli africani e quella degli ascari nella storiografia coloniale è ancora inedita. Ma soprattutto perché Hailu utilizza le figure retoriche della letteratura per veicolare un discorso anticoloniale, rivelandone così la potenza allegorica e politica.
Formatosi tra due mondi letterari e religiosi, quello latino e quello ge’ez (lingua della classicità etiope e eritrea), Hailu attinge a queste sfere culturali e, come nota Dirar, alla cultura popolare orale tigrina. L’autore offre una testimonianza e un resoconto storico ma soprattutto una sofisticata allegoria dell’esperienza coloniale: adotta e inverte i topoi coloniali, usa riferimenti alla classicità, al canone letterario e ai racconti biblici mettendoli al servizio del proprio progetto culturale.
Il testo ricostruisce le vicende del suo protagonista, l’ascaro eritreo Tequabo, arruolatosi nell’esercito italiano per combattere in Libia. Gli stilemi narrativi per raccontare quest’esperienza di crudeltà e sofferenza servono a invertire la sudditanza del soldato coloniale. La scrittura parte da un’introspezione di stampo modernista (il titolo del primo capitolo, Ritratto di un giovane, rimanda al Ritratto dell’artista da giovane di Joyce) per poi passare alla narrativa di viaggio, alla cronaca di guerra e concludersi con un poema orale, il melqes, genere poetico tigrino recitato in segno di lutto.
Nel capitolo La partenza degli ascari troviamo il primo esempio di un’inversione chiastica, tipica del romanzo. La letteratura di viaggio è reinterpretata da una prospettiva di segno opposto a quella dell’archivio coloniale. Il protagonista, nota Dirar, legge gli spazi coloniali attraverso un’ottica autoctona che inverte i segni esotizzanti della letteratura coloniale. Il viaggio dall’Eritrea verso la Libia è carico del passaggio dell’espansione europea. La menzione alla terra degli Habab, tuttavia, ci avverte della presenza di una lettura della geografia in funzione anticoloniale. Gli Habab, gruppo nomade dell’Eritrea, furono tra i primi a opporsi alla colonizzazione italiana disertando nel 1895 verso il Sudan, evento chiave nel contesto della rivolta di Bahta Agos e della resistenza eritrea contro l’espropriazione italiana delle terre. Riferimenti alle coste egiziane e al Monte Sinai hanno, inoltre, una risonanza sacra per gli ascari sotto il giogo dai comandanti italiani. Le allusioni bibliche fungono da potente appello panafricano alla solidarietà, quando i soldati eritrei, conoscendole bene, si dirigono a nord verso un Egitto già indipendente.
Di grande effetto sono i riferimenti ai classici della letteratura italiana. Nel capitolo Il luogo della battaglia e della sofferenza, prologo dantesco alla guerra coloniale, Tequabo, come Dante, chiede al proprio Virgilio: “Amico mio, ma questa è una terra abitata da esseri umani?”. Il deserto libico è una terra infernale, la luna sul Mar Rosso è leopardiana. Gli ascari, come anime dantesche, sono sottoposti alla legge del contrappasso: “Che dire? Stavano ricevendo in pieno ciò che il Signore aveva inflitto loro”.
Il capitolo si apre con la prima strofa di All’Italia di Leopardi. Hailu utilizza con sapienza la grande poesia italiana civile e patriottica, e l’inversione chiastica diventa mezzo per ricontestualizzare la cultura degli oppressori. Qui, la citazione del poema italiano serve a tracciare un parallelo tra l’Italia e l’Eritrea, entrambe costrette a lottare al comando della dominazione straniera. Leopardi piange il declino dell’Italia sottomessa al dominio francese: l’ironia, in L’ascaro, è che l’Italia è ora dominatrice. All’Italia si chiude con la voce del poeta greco Simonide, che decanta il trionfo dei giovani spartani sull’esercito persiano; attraverso questa inversione, Leopardi paragona ora gli italiani agli antichi spartani vittoriosi. Nel romanzo di Hailu, sono gli habesha (termini amarico per gli abissini) a poter decantare i propri trionfi, tra cui la vittoria sugli italiani nella battaglia di Adua. Unica vittoria di forze indigene contro un invasore straniero, ma mai menzionata nel romanzo, la vittoria africana è prefigurata, attraverso Leopardi, non come promessa di liberazione per gli italiani, ma per gli eritrei nella lotta contro il loro brutale dominio.
L’ascaro si conclude con un profondo senso di sofferenza. “Mai più tarbush e armi! Mai più italiani e caos!” recita il melqes. Nel suo appello per una redenzione della coscienza (“La nostra coscienza è morta. Possa giungere un’epoca che la risollevi”) l’epilogo del romanzo di Hailu denuncia la violenza della colonizzazione e ci parla di un futuro possibile il cui centro è il mondo africano indipendente, sia nella pratica poetica, sia in quella politica.
clombardidiop@luc.edu
C. Lombardi-Diop insegna letteratura italiana e letteratura della diaspora africana alla Loyola University Chicago
Chi rifiuta di andare a Tripoli è una donna
di Gabriele Proglio
“Questo libro, che va in stampa con il titolo Hade zanta (Una storia), rispecchia le emozioni che provai quando, diciottenne, attraversai il mare per recarmi in Italia a compiere i miei studi”: queste le parole con le quali inizia L’ascaro, di Abba Ghebreyesus Hailu. Partiamo dal contesto. È il 30 settembre 1927 e, come afferma Uoldelul Chelati Dirar, che firma una bella Introduzione storica, “siamo (…) in un’Eritrea soggetta al dominio coloniale italiano da più di quarant’anni”. Hailu, sacerdote cattolico eritreo che si forma tra Keren, il Vaticano e Gerusalemme, vedrà il suo testo pubblicato solamente nel 1950. A dilatare i tempi di uscita del manoscritto concorreranno il regime, la guerra, gli impegni ecclesiali e problemi economici. È la vicenda di Tequabo, giovane eritreo di buona famiglia, che decide di entrare nei ranghi dell’esercito coloniale italiano per andare a combattere in Libia, durante la guerra del 1911-1912. La storia serve ad Hailu per mettere nero su bianco la brutalità della violenza coloniale e le contraddizioni del soggetto colonizzato.
Il testo non ribalta l’immaginario europeo o il canone letterario. Affermando il contrario, implicitamente si reitera un modello dicotomico in cui l’oltremare è contrapposto alla nazione europea, il sud al nord, la periferia al centro. E, ovviamente, il nero al bianco. Hailu, invece, si muove tra più culture, lingue ed esperienze vissute: le sue pagine, scritte in tigrino, sono frutto di sincretismi culturali che mostrano l’allucinazione vigile del colonialismo. In questo scenario, i giovani maschi eritrei cantano “chi rifiuta di andare a Tripoli è una donna”, credendo di poter diventare eroi, di guadagnare rispettabilità e fama sul campo di guerra. Ritornano alla mente le pagine di Frantz Fanon sull’emulazione del bianco da parte del nero. L’intera traiettoria di Tequabo è costellata da violenze: dalle scudisciate degli zaptie (carabinieri indigeni) alla partenza, all’essere maltrattato e abbandonato sul ponte della nave. La regola impartita dell’ufficiale italiano è: “Noi soli siamo bianchi valorosi, noi, italiani, vostri signori”. E poi giunge il tragico epilogo in Libia: “Il colonizzato, utilizzato a sua volta come strumento di colonizzazione altrui, era venuto fin qui non per trarre beneficio per sé o per il proprio paese, ma per sottomettere invece questi conterranei che, anche se distanti, erano pur sempre figli d’Africa”.
Come suggerisce Maaza Mengiste nella Prefazione, la vicenda di Tequabo rievoca le storie di quei soggetti colonizzati la cui memoria è andata persa. E anche la sovrapposizione di immagini storiche – ascari ieri e migranti oggi – che propone funziona bene: entrambe parlano di sfruttati lungo le medesime traiettorie geografiche. Il Mediterraneo, in tal senso, è una soglia che rivela memorie di conflitti (la Libia, l’Etiopia, la guerra civile tra Addis Abeba e Asmara) e molteplici forme di mascolinità e bianchezza. “A chiunque sia abbastanza saggio non sfuggirà – scrive Hailu a chiusura del Prologo – la differenza tra chi ha combattuto e si è immolato in nome della patria e chi invece ha trovato la morte dopo aver attraversato il mare per combattere in nome di forestieri”. Il termine patria crea una dissonanza che si riverbera tra storia e presente, illuminando contraddizioni e discontinuità di visioni che si vorrebbero omogenee, continue e duali. Ugualmente, pensare il colonialismo come origine di ogni discriminazione nella storia è, sì, un atto che reitera l’onnipotenza bianca: infatti saperi e strumenti per amministrare l’oltremare erano a disposizione dell’Europa prima delle conquiste coloniali. Parimenti, è storicamente necessario lavorare la memoria coloniale con sguardi capaci di travalicare i confini epistemologici dell’evento, ad esempio con un approccio multidirezionale, come suggerito da Michael Rothberg. Oppure, ancora, indagare i razzismi con lenti capaci di cogliere l’eredità della circolazione di immaginari, pratiche e persone tra gli imperi. E, infine, ogni soggettività dovrebbe essere idonea e titolata a prendere parola per attribuire significati a queste importanti tracce del passato. Ogni, non qualcuna o una: questa è, a mio avviso, la sfida educativa e culturale. Proprio perché – quella che va riscritta insieme – non dovrebbe essere una storia, la storia di qualcuno, ma di tuttə.
g.proglio@unisg.it
G. Proglio insegna storia contemporanea all’Università di scienze gastronomiche di Pollenzo