recensione di Giulia Baselica
Eduard Samuilovič Kuznecov
Parole trafugate
Diari di clandestini dalla Russia (1970-1971)
trad. dal russo di Maria Olsufieva e Oretta Michahelles, ed. originale 1973,
pp. 192, € 19,50.
Guerini e Associati, Milano 2023.
Pubblicate originariamente nel 1973 da Longanesi, le memorie di Eduard Kuznecov si impongono all’attenzione del lettore di oggi come intensa testimonianza autobiografica, narrazione storica e riflessione filosofica generate dalla sentenza di condanna capitale, non inusuale nella Russia brežneviana, emessa nel dicembre 1970. Kuznecov è accusato di alto tradimento per aver tentato, il 15 giugno, con alcuni complici, anch’essi arrestati e condannati, di impadronirsi di un aereo sovietico in sosta all’aeroporto leningradese Smol’noe, per raggiungere Israele. Le vigorose proteste internazionali seguite alla notizia della sentenza inducono la Commissione giudicante ad avviare una revisione del processo e il 31 dicembre la condanna capitale di Eduard Kuznecov è commutata in regime di carcere speciale per la durata di quindici anni.
Parole trafugate raccoglie le annotazioni diaristiche redatte da Kuznecov dal 27 ottobre 1970 al 28 novembre 1971. Con autoironia l’Autore dichiara subito di apprezzare il privilegio di aver ricevuto carta e matita: “è un bel piacere starsene un poco seduto con un quaderno, l’aria saccente, fumare a volontà e annotare qualche inezia”. La scrittura è, per lui, soprattutto salvifica: “scrivo solo per conservare il mio volto”, ma è anche cronaca e, nel contempo, disperata denuncia, quando, per esempio, egli ricorda ed enumera in un terrificante elenco i detenuti che hanno tentato la fuga e sono stati freddati anche se inermi, anche se già pentiti della loro azione, anche se già pronti ad arrendersi o se già arresi: “ma come si fa a raccontare tutto?”.
Il diario deve essere attentamente custodito: Kuznecov lo nasconde fra le pagine di un volume di opere di Nikolaj Karamzin. Riempirà più quaderni: i primi due saranno requisiti quasi subito e un terzo sarà scoperto nel corso di una perquisizione, ma Kuznecov riuscirà a distruggerlo, sottraendolo alla confisca da parte delle autorità carcerarie. Il diario è una risorsa essenziale: “una forma di consapevole resistenza contro un’esistenza impossibile” e, ogni volta, alla crudele requisizione segue la resiliente e non rassegnata opera di ricostruzione della memoria. Così Kuznecov diviene un moderno Sisifo, protagonista della non-vita del lager, “ambiente orribile, umiliante”, dove l’uomo “comincia a dubitare dell’utilità di ubbidire alla propria verità e si convince che esiste solo la verità della biologia, l’adattamento”. Tre sono i possibili atteggiamenti con i quali il detenuto intraprende la rischiosa scrittura diaristica nel costante timore di essere scoperto e punito: ostentare un finto pentimento e deplorare gli errori commessi, nel contempo manifestando la propria sconfinata ammirazione per gli organismi del potere; rinunciare a scrivere, così evitando di consegnare ai malvagi esecutori delle superiori volontà le proprie confidenze; infine, cedendo all’urgenza della scrittura, evitare scrupolosamente ogni possibile menzione che sia di nocumento al prossimo. Non meno difficoltosa è l’attività della lettura: i libri pubblicati prima della rivoluzione e i libri stranieri sono considerati antisovietici e antisovietiche sono le risate suscitate dalla lettura della rivista satirica “Krokodil”. Questa la sconsolata constatazione: “leggo ogni sorta di robaccia. Succede spessissimo che i libri da me ordinati non siano in biblioteca e allora portano il primo che gli capita, per lo più roba da macero degli anni 1940-1950. È tutta la settimana che faccio smorfie leggendo I fratelli Eršov di Kočetov”, esempio di letteratura industriale caratterizzata da una marcata opposizione al disgelo chruščëviano. Ma alla “roba da macero” si contrappone la grande letteratura. Di Dostoevskij Kuznecov evoca la complessa riflessione sull’esistenza di Dio e sulla necessità di “una qualsiasi dottrina che imbrigli il subcosciente”, che a sua volta suggerisce un’interessante quanto amara osservazione sull’autocoscienza russa: essa “non conosce la libertà, ma solo l’arbitrio”. La contrapposizione fra le due condizioni richiama alla mente di Kuznecov la figura di Andrej Sinjavskij, celebre scrittore e critico letterario, il quale in epoca sovietica sopravvisse alla durissima esperienza del lager, “una via di mezzo fra un appartamento in comune con altri inquilini, un manicomio e un giardino d’infanzia” oltre che “il retrocortile dell’impero sovietico”, nel quale i detentori del potere si possono permettere di “girare discinti e spesso trascurano il belletto demagogico”. Ma il lager è anche una “scuola d’amore per la libertà”.
Due i temi che impegnano la riflessione dell’autore: la storia russa e l’identità ebraica, entrambi necessari per comprendere la natura del potere sovietico e il conseguente destino individuale per esaminare la propria vicenda personale alla luce del conflitto tra le proprie aspirazioni e le ingiunzioni del potere. Il tema ebraico percorre le pagine di Kuznecov, il quale constata che per l’ebreo la quotidianità nel lager è molto più ardua che per chiunque altro, perché i “russofili […] considerano loro patriottico dovere lottare contro il sionismo (da loro inteso nel senso di ‘congiura dei savi di Sion’)”.
Kuznecov coglie nel governo bizantino l’antica matrice del peculiare trattamento riservato ai dissidenti, giustiziati al fine di tutelare la purezza ideologica, in quanto “il dispotismo ama i caratteri integri, monomaniaci”. E se il basileus incarna sia il potere secolare sia il potere religioso, in epoca sovietica si ritiene che ogni vittoria sia l’espressione della fedeltà ai divini precetti della dottrina marxista-leninista. Alle riflessioni dedicate ad alcuni protagonisti e a particolari episodi della storia russa ‒ come la figura di Boris Godunov o quella di Vasilij Šuiskij che regnarono entrambi per pochi anni durante la cosiddetta “epoca dei torbidi” (1598-1613); Nikita Panin, mentore politico della zarina Caterina II; Aleksandr Herzen e Lenin ‒ seguono interessanti considerazioni sul rapporto di reciproca identificazione tra i movimenti religiosi e sociali e quelli di natura politica. I fondatori e i primi seguaci degli uni e degli altri sono “originali a oltranza, audaci tanto nella negazione del vecchio quanto nell’affermazione del nuovo”. E tuttavia, una volta conseguita la vittoria, perseguono un solo scopo: rimanere al potere a qualunque costo per poi trasformarsi in “persecutori di ogni audacia”. Ne deriva la delicata questione della verità condivisa con il popolo: “si possono aprire gli occhi al popolo soltanto sulla verità di un singolo fatto, non gli si può insegnare a individuare la verità” in quanto lo sviluppo del pensiero autonomo è un processo lungo e, soprattutto, individuale.
Molte pagine del diario si soffermano sulle fasi del processo a carico di Kuznecov, il quale prepara con cura il discorso che pronuncerà in tribunale. Intende precisare le ragioni della trasgressione commessa, il tentativo di abbandonare illegalmente il territorio: in quanto ebreo, egli non avverte in sé né il desiderio di dominare né l’amore per la rassegnata sottomissione, tendenza che ravvisa rispettivamente nei detentori del potere sovietico e nel popolo; si considera indirettamente responsabile, in qualità di cittadino sovietico, “di tutte le abominazioni” perpetrate dal suo Paese; ritiene, infine, “inutile lottare contro il potere sovietico, perché esso risponde alle aspirazioni di una notevole, ma ahimè, non migliore parte della popolazione”.
Fino al momento in cui gli verrà comunicata la commutazione della pena capitale in detenzione in isolamento istruttorio, egli avrà sperimentato la condizione psicologica del condannato a morte, che “si rifugia nella demenza, nella certezza del miracolo”. Kuznecov rievoca la propria reazione alla notizia della propria salvezza: “trattenevo a stento lagrime di umiliazione e di furibondo odio, per me stesso, per tutta questa commedia, tipicamente politica: la sentenza, il regalo di Capodanno da parte di un Babbo Natale con le spalline azzurre”.
Nei primi giorni di giugno del 1971 Kuznecov sarà trasferito in un lager della Mordovia e, pochi mesi dopo, presenterà una dichiarazione di rinuncia alla cittadinanza sovietica: “io non cerco di sfuggire alle pedate, di cui sono quotidianamente gratificato quale ebreo e persona che abbia voluto abbandonare i confini dell’Urss, ma da ora e per sempre: io non sono cittadino sovietico e prego non annoverarmi tra questi”. Sarà rilasciato nel 1979 ed emigrerà in Israele, dove tuttora vive.
Alle pagine di questo diario, animate da una straordinaria energia intellettuale, da una sorprendente lucidità unita a un sentimento di profonda compassione, Eduard Kuznecov consegna la propria testimonianza, cronaca che a tratti si fa discontinua e cede alla constatazione estemporanea, al riferimento dotto, al ragionamento complesso o all’aforisma. Affida loro i propri pensieri, l’espressione di emozioni intense, il racconto di una sofferenza che non induce mai alla disperazione e che esorta, invece, all’impegno civile. Pagine che, vergate entro il perimetro di uno spazio claustrofobico, si librano idealmente nelle contrade infinite della libertà dello spirito e dell’intelletto.
giulia.baselica@unito.it
Giulia Baselica insegna lingua e letteratura russa all’Università di Torino