Dorothy Johnson – L’uomo che uccise Liberty Valance

C’era una volta il racconto western

di Stefano Franceschini

Dorothy Johnson
L’uomo che uccise Liberty Valance
ed. orig. 1953, trad. dall’inglese  di Nicola Manuppelli,
pp. 186, € 17,
Mattioli 1885, Fidenza PR 2024

Se un racconto introduce un pezzo di corda che pende dal ramo di un albero lungo il cammino per un campo di cercatori d’oro, i presupposti per un’impiccagione sembrano esserci tutti. È così che Dorothy Johnson (1905-1984), nata in Iowa e considerata la più grande autrice di narrativa western, reinterpreta lo stratagemma della pistola di Čechov in L’albero degli impiccati, racconto che assieme a L’uomo che uccise Liberty Valance, Un uomo chiamato cavallo e Una sorella scomparsa compone il volume pubblicato da Mattioli 1885 nella traduzione di Nicola Manuppelli. Definita parte del patrimonio culturale statunitense da Jack Schaefer, Johnson elabora in questa raccolta quattro storie (le prime tre ispireranno celebri adattamenti cinematografici) che offrono con disinvoltura uno sguardo al fascino esercitato dal mito tutto americano della frontiera.

L’uomo che uccise Liberty Valance (racconto che dà il titolo all’opera) si apre con il funerale di Bert Barricune, al quale partecipa il senatore Ransome Foster. Attraverso un flashback che occupa la quasi totalità della storia e che riporta chi legge indietro di trent’anni, il narratore rivela che se Ranse è ancora vivo è grazie a Bert, un archetipo del personaggio western – cinico, indurito dalla vita, ma disposto ad aiutare Foster a vendicarsi dell’umiliazione che il futuro senatore ha subito dall’eponimo fuorilegge. Liberty Valance non è però la solita storia che ruota esclusivamente attorno al cosiddetto “codice del West” (a cui rinvia anche il titolo di un romanzo di Zane Grey). Lo conferma la stessa Johnson in una intervista degli anni settanta: cosa accadrebbe se uno dei due sfidanti, in un duello, non sapesse sparare? È quanto capita a Foster, un “ragazzo dell’Est, discretamente curioso, che andava da una cittadina scalcagnata all’altra” senza un preciso scopo, eccetto quella stessa curiosità sintomatica dell’irreversibile espansionismo della giovane nazione americana.

Dell’Est è anche il protagonista di Un uomo chiamato cavallo, rapito da un gruppo di nativi Crow poco dopo aver intrapreso un viaggio verso “quella frontiera sempre più sfuggente”. Forzato a un processo di ridefinizione identitaria, il protagonista non solo riesce a ritagliarsi uno spazio nell’accampamento in cui è prigioniero, ma compie un percorso di assimilazione culturale che lo porta prima a farsi accettare dalla sua nuova famiglia, e poi a sposarsi con una giovane nativa (Pretty Calf). È un racconto che rispetta appieno le strategie delle captivity narratives, registrando le ansie mai del tutto sopite del pubblico americano nei confronti delle brutalità perpetrate contro le popolazioni indigene del Nordamerica.

I personaggi di Johnson si contraddistinguono per una predisposizione a sacrificare sé stessi e, se necessario, persino la propria vita, come accade in L’albero degli impiccati. In questa novella, passioni, gelosie e dilemmi morali si intrecciano lungo il sentiero tracciato dalla frenetica corsa all’oro nella frontiera occidentale, per poi risolversi con il duplice sacrificio di Joe Frail, il medico di Skull Creek, e della giovane Elisabeth Armistead. L’immagine ominosa dell’albero – simbolo della “maledizione che incombeva su di lui” – perseguita senza tregua i pensieri di Frail. Una maledizione che si manifesta come un’ossessiva “domanda silenziosa che Joe aveva per ogni uomo che incontrava […]: Sei tu? Sei tu l’uomo per il quale verrò impiccato?”.

Chiude la raccolta Una sorella scomparsa, racconto commovente che riprende il topos del rapimento. Ma a differenza di Un uomo chiamato cavallo, stavolta il ritorno alla società bianca è traumatico: lo strappo con il passato impedisce a Bessie, la donna “che aveva vissuto con gli indiani” per tutta la vita, di riconoscersi nella sua famiglia biologica. Per le sorelle era nient’altro che “un fantasma in carne e ossa che infestava la casa”.

Attraverso una prosa efficacemente compatta ed estranea a immagini eccessivamente elaborate, Johnson conferisce nuovo respiro a un genere consuetamente associato al mero escapismo, ridisegnandone le più collaudate convenzioni (non di rado con l’ausilio dell’ironia), come nel caso di Liberty Valance. A beneficiare di queste riconfigurazioni sono anche le irrisolvibili conflittualità che invigoriscono la psicologia dei personaggi, come testimoniano la forza divoratrice del rancore che Ranse prova per Liberty e per sé stesso, e la tensione esistenziale tra morte, vita e rimpianti vissuta da Joe Frail: “quando un uomo viene impiccato”, riflette Joe, “non dovrebbe pensare a nessuno se non a sé stesso”; ma “chi è mai veramente morto in pace se non quelli che non avevano nulla per cui vivere?”.

stefano.franceschini@uniroma3.it
S. Franceschini è dottore di ricerca in letteratura angloamericana all’Università di Roma Tre

Per una nuova “rispettabilità culturale” del genere

di Giaime Alonge

In Il terzo uomo (The Third Man, 1949) di Carol Reed, il protagonista, interpretato da Joseph Cotten, è uno scrittore di romanzi western, dime novels che si comprano nelle stazioni del Greyhound, il quale, a causa di un fraintendimento, viene invitato a tenere una conferenza come se fosse un “vero” romanziere. Quando gli chiedono chi sia l’autore che lo ha influenzato di più e lui risponde Zane Grey, il pubblico la prende per una battuta, perché Zane Grey è uno dei nomi più noti della letteratura western, un genere che nel 1949 nessuna persona di buona cultura avrebbe preso sul serio. Nel XXI secolo le cose sono parzialmente cambiate, un po’ perché la differenza tra letteratura “alta” e “bassa” è stata messa in discussione da tempo, e un po’ perché autori “medi” come ad esempio Larry McMurtry, o anche schiettamente “alti” come Cormac McCarthy, hanno costretto persino i lettori più tradizionalisti a smettere di snobbare a priori le storie di banditi e sceriffi.

Ma se oggi un editore “serio” decide di pubblicare un libro appartenente al genere western (e una rivista altrettanto seria decide di recensirlo) non è soltanto perché quella tipologia letteraria si è affrancata da un antico pregiudizio, ma anche perché, nel caso specifico di questa raccolta di racconti di Dorothy Johnson, ad alcune di quelle short stories sono ispirati film famosi, e in particolare uno dei più famosi film del più famoso regista western di tutta la storia del cinema. Non per niente, sulla copertina del volume campeggia proprio il tiolo del racconto da cui John Ford (con l’aiuto degli sceneggiatori Willis Goldbeck e James Warner Bellah) trasse il suo penultimo film western.

La vicenda della “rispettabilità culturale” del cinema western è simile a quella della letteratura del medesimo genere. Durante il periodo classico (l’età dell’oro dello studio system hollywoodiano, tra gli anni trenta e i cinquanta), i western erano considerati filmetti per gli spettatori meno esigenti. Il pubblico – americano e straniero – li amava enormemente, ma non solo i rappresentanti della cultura “alta” per lo più li liquidivano come una delle forme più rozze dell’industria culturale: lo stesso establishment hollywoodiano li disprezzava, per quanto le majors ne producessero a dozzine. Basti dire che John Ford, che ha passato la vita a girare western, ha vinto quattro volte il premio Oscar per la miglior regia ma mai per un western. L’idea che un western possa essere un’opera d’arte e il suo regista un artista è per molti versi un’invenzione della critica francese del secondo dopoguerra, di André Bazin e dei suoi allievi, quei “giovani turchi” dei “Cahiers du Cinéma”, che prima reinventano la critica cinematografica e poi – con la nouvelle vague – il cinema stesso.

L’uomo che uccise Liberty Valance (The Man Who Shot Liberty Valance, 1962) è un film crepuscolare, dove Ford mette in discussione il mito del Far West come grande epopea nazionale, di cui pure era stato uno dei maggiori cantori, sin dall’epoca del muto. Qui, come già in Il massacro di Fort Apache (Fort Apache, 1948), il mito è costruito dichiaratamente sulla menzogna. Non per nulla, un regista che amava lavorare in ambienti reali (nella Monument Valley soprattutto, ma non solo), per Liberty Valance sceglie di girare interamente in studio, proprio a esaltare la dimensione del falso. Liberty Valance annuncia quel processo di totale dissacrazione dell’epica western che avrà luogo negli anni settanta, con la New Hollywood, dove peraltro ritroviamo un altro adattamento da Dorothy Johnson: Un uomo chiamato cavallo (A Man Called Horse, 1970) di Elliot Silverstein. Le etichette storiografiche ci portano a collocare il western classico di Ford e quello “revisionista” di Peckinpah in due periodi distinti, ma in realtà gli ultimi film di Ford sono coevi dei primi di Peckinpah: il suo Sfida nell’alta sierra (Ride the High Country, 1962) esce un mese dopo Liberty Valance, dove uno dei tirapiedi di Lee Marvin è interpretato da un caratterista, Strother Martin, che ritroviamo in due western di Peckinpah, Il mucchio selvaggio (The Wild Bunch, 1969) e La ballata di Cable Hogue (The Ballad of Cable Houge, 1970), mentre il secondo scagnozzo di Liberty Valance è interpretato da Lee Van Cleef, che pochi anni dopo compare in Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto, il cattivo (1966) di Sergio Leone, a indicare l’influenza del capolavoro di Ford anche sull’altro ramo, quello italiano, del western postclassico.

giaime.alonge@unito.it
G. Alonge insegna storia e critica del cinema all’Università di Torino