Ci siamo sempre state, ora ci vedono
di Emilia Perassi
Ci troviamo a parlare di nuovo di boom a proposito della narrativa latinoamericana, così come avevamo fatto più di mezzo secolo fa, a partire dal 1968, anno della leggendaria traduzione Feltrinelli (peraltro la prima mondiale) di Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez. A differenza di quegli anni, ora le artefici sono le donne, pluripremiate, pluritradotte, ospitate in ogni incontro culturale che conti. Quella “salutare invadenza” degli scrittori latinoamericani di cui scriveva Mario Luzi nel 1974, con le scrittrici è diventato uno Tsunami, come recita il titolo di tre volumi antologici loro dedicati in Messico. Ciò per dare l’idea non di un episodio eccezionale e transitorio, semmai di un potente crescendo di voci che fanno coro, non assoli. “Ci siamo sempre state, ora ci vedono”, dice la scrittrice Gabriela Saidon.
A ogni buon conto, che sia boom o tsunami, dal punto di vista editoriale il fenomeno c’è: c’è la quantità, che popola i cataloghi di un numero senz’altro mai visto di scrittrici latinoamericane; c’è la varietà di un ventaglio di nomi che copre geografie abbastanza diversificate (dominano Messico, Argentina e Cile, ma guadagnano posizioni anche Colombia, Bolivia ed Ecuador); c’è l’assortimento generazionale, che vede prevalere le scrittrici nate fra gli anni settanta e ottanta, senza trascurare le figlie degli anni sessanta e comprendendo recuperi importanti degli anni trenta e venti, come la messicana Amparo Dávila e le argentine Sara Gallardo, Aurora Venturini e Luisa Valenzuela. Per le nate negli anni quaranta, in questo momento il palco è occupato dalla cilena Diamela Eltit, nome irrinunciabile, e dai cui laboratori di scrittura narrativa proviene una parte non trascurabile delle contemporanee. Si tratta di un polittico di ispirazioni narrative che definiscono il perimetro di un femminismo “senza una stanza tutta per sé”. Un femminismo proiettato sul fuori ma pensato dal dentro di corpi e coscienze lacerati, pieni di cicatrici e di vuoti. Sfilano le donne invase dai fantasmi nell’Amparo Dávila di L’ospite e altri racconti e Morte nel bosco (Safarà, 2020 e 2023: cfr. “L’Indice” 2023, n. 9). Con Sara Gallardo di I levrieri (gran vía, 2023 : cfr. “L’Indice” 2023, n. 11), sprofondiamo nelle pieghe di un romanzo sentimentale struggente che è anche scavo impietoso nel cuore di una classe sociale. In Luisa Valenzuela, la trama poliziesca di Il procuratore muore (Le Assassine, 2023), ripristina giustizia poetica laddove è mancata giustizia politica. A Diamela Eltit va il compito di procedere a un’indagine endoscopica che esplora le viscere del corpo ammalato della contemporaneità, infettando anime e vite (Manodopera, Polidoro 2020 e Mai e poi mai il fuoco, gran vía, 2021). In loro, come poi successivamente, si afferma un tratto che mi sembra si possa estendere all’insieme delle scrittrici latinoamericane, dalle meno giovani alle più giovani: vi si avverte infatti, e in modo spiccato, quella che Lillian Smith definiva “la mancanza di devozione verso la civiltà” propria dello sguardo delle donne. Una civiltà che perciò stesso va riscritta, attraverso uno sguardo radicalmente diverso, che ausculta, inquisisce, rifonda. Citando Bruno Latour: uno sguardo che “disinventi” la modernità.
Archeologhe piegate sulle rovine di un tempo infranto come quello contemporaneo, queste scrittrici trafficano con piccoli resti, immagini, frantumi di ricordi di cose o persone perdute. Impegnano l’immaginazione e la parola nell’impresa di restituire significato e voce a ciò che è scomparso o perché non è mai stato detto o perché è stato ucciso, trafugato, respinto. Cercano di situarsi – suggerisce la splendida studiosa cilena Lorena Amaro – nel fuori del neoliberismo. Gli oppongono altre genealogie, enciclopedie, biblioteche, sorte dal recupero di ciò che è stato messo sotto silenzio. Nonostante l’estrema diversità di stili e angolature della messa a fuoco narrativa, credo che qualche costante possa essere rintracciata. Centrale quella della qualità spettrale del reale, che mette la scrittura come in uno stato di insonnia di fronte al sonno delle società. Sono innumerevoli le figure che si affollano in questi archivi di spettri. Vi appaiono i corpi dei resi assenti dalle dittature, dalle frontiere mortali per i migranti, dai femminicidi. Corpi gravidi di silenzi che aprono crepe nel presente dei vivi, facendo filtrare ombre, grida, angoscia. Come nelle pagine della cilena Nona Fernández, fra le più costanti nell’ossessione per la memoria come forma di mantenere in vita gli scomparsi. Nel fiume che attraversa Santiago (Mapocho, gran vía, 2017), in un cassonetto della spazzatura nel quale ritrova una foto del padre (Fuenzalida, gran vía, 2019), nelle stelle dalle cui particelle siamo costituiti (Space Invaders, Edicola Ediciones, 2020), sono contenute le voci appena percettibili degli assenti, in cerca di ascolto.
La memoria come atto di amore incessante è nell’argentina Marta Dillon, che in Aparecida (Nova Delphi, 2021,gran vía, 2021: cfr. “L’Indice” 2021, n. 9) ricostruisce il corpo della madre a partire dalle poche ossa ritrovate in una fossa comune. Così come in L’invincibile estate di Liliana (Sur, 2023), della messicana Cristina Rivera Garza, anch’esso memoir che con straziante pazienza ripristina la luminosa giovinezza della sorella uccisa a vent’anni dal compagno.
Dall’interrogarsi sulle ragioni del suicidio del fratello è fatto invece Cenere in bocca (trad. dallo spagnolo di Gina Maneri, pp. 192, € 17,90, La Nuova Frontiera, Roma 2023) della messicana Brenda Navarro. Il romanzo affonda nella brutalità delle migrazioni, che dissolvono identità e famiglie nello sfruttamento e nel razzismo. Immergendo ogni tanto il dito nell’umido delle sue ceneri, la sorella riflette su quanto valga esattamente una vita. Dal canto suo, la venezuelana Karina Sainz Borgo, in La custode (Einaudi, 2022), celebra una potente liturgia del lutto in nome degli uccisi dal mondo dei necroconfini. Pone al centro due donne – Visitación Salazar e Angustias – che sono altrettante Antigoni, custodi di un cimitero ove ogni corpo defunto nell’abbandono è accolto e protetto. Ed è invece quella di Cassandra la figura matrice cui rinvia Mangiaterra (Solferino, 2020) dell’argentina Dolores Reyes. La sua protagonista, nell’ingoiare la terra ove le morte sono sparite, ne conosce il destino ed è obbligata a dire la verità sul loro assassinio. La potenza di saperi misteriosi torna anche in Le Streghe (Alter Ego, 2021) della messicana Brenda Lozano: storia che si muove fra il Messico urbano e quello ancestrale per raccontare l’assassinio di Paloma, muxe, cioè uomo che è donna.
La battaglia con la lingua resta la frontiera più difficile per rendere presente l’assenza, per dar corpo agli spettri. Il frammento, il ricorso a più voci narranti, le strutture ellittiche, il testo come tessuto fatto di vuoti e di pieni, i registri compositivi che si muovono dal realismo testimoniale al new weird, sono alcune delle strategie usate. Oppure l’integrazione della parola con l’immagine, come nel caso della messicana Verónica Gerber Bicecci, “artista visuale che scrive” – come si definisce – e che in Insieme vuoto (Fahrenheit 451, 2022) mette in dialogo parole e disegno per dire dello “spazio vuoto” lasciato dalla madre, sfumata senza dire nulla. Il catalogo dei fantasmi o dei vampiri trova nell’ecuadoregna Mónica Ojeda o nella messicana Liliana Blum ulteriori entrate. Se in Mandibula (Polidoro, 2021: cfr. “L’Indice” 2021, n. 6; 2023, n. 6), Ojeda scende nel campo delle relazioni terrorizzanti, fatte di potere, sottomissione, vendetta e psicopatia fra le allieve di una scuola, le madri e un’insegnante, in Blum (Il mostro pentapodo, trad. dallo spagnolo di Sara Papini, pp. 304, € 21, Cencellada, Roma 2023) una narrazione sconvolgente precipita nella mente di un pedofilo. Una messa a fuoco estremamente ravvicinata sonda la relazione del mostro con la bambina, fra l’abiezione del carnefice e il terrore della vittima. Storie scomode quelle di queste due scrittrici, che si muovono in universi perturbanti e guardano attraverso le crepe di un’intimità deforme. Ma in generale l’attenzione narrativa di tutte si mantiene concentrata sulla violenza del mondo. La scovano nelle relazioni intrafamiliari, nelle politiche contro chi disobbedisce o chi sta nel margine, nei poteri economici, nelle discriminazioni, nell’ecocidio come forma ulteriore del nostro mortifero Antropocene. Penso, a quest’ultimo riguardo, alla Melma rosa dell’uruguayana Fernanda Trías (Sur, 2022 : cfr. “L’Indice” 2022, n. 9) o a Distanza di sicurezza (Sur, 2020 : cfr. “L’Indice” 2021, n. 7/8), dell’argentina Samanta Schweblin. In questa terra addolorata, scavata dalla violenza incessante degli uomini, si insediano le storie intime, dolenti, della colombiana Pilar Quintana (La cagna, La tartaruga, trad. dallo spagnolo di Pino Cacucci, pp. 112, € 17, Baldini+Castoldi, Milano 2023) o il racconto di vendette e rancori eterni dell’argentina Mariana Travacio (Come se esistesse il perdono, trad. dallo spagnolo di Giulia Zavagna, pp. 176, € 18,90, Cencellada, Roma 2023), ambedue autrici di straordinaria finezza, da seguire con attenzione.
Credo che in queste opere possa essere individuata un’altra costante: la scrittura come spazio di resistenza, luogo della memoria e delle rovine, ma anche di nuove tessiture per tornare a difendere la vita. L’arte del rammendo, che cuce ciò che è stato rotto, che recupera ciò che si pensava di buttar via, emerge come proposta poetica e politica che pensa il mondo attraverso la cura, l’intreccio, la riparazione. Nel romanzo della messicana Jazmina Barrera Punto croce, (trad. dallo spagnolo di Federica Niola, pp. 224, € 17,50, La Nuova Frontiera, Roma, 2023) l’ago e il filo sono gli strumenti di un altro alfabeto per la cultura, capace di tessere anziché di stracciare, di ricomporre anziché di devastare. L’idea del filo mi fa ripensare alla Teoria letteraria del sacchetto della spesa di Ursula Le Guin, grande referente di molta parte delle scrittrici latinamericane contemporanee. La letteratura è come il fagotto sacro intessuto dagli indiani, scriveva Le Guin. Il romanzo è quel sacco di corda intrecciata nel quale pazienti raccoglitrici mettono dentro le cose e insieme le parole per dirle, senza abbandonare nulla per strada, recuperando, custodendo, rimettendo insieme.
emilia.perassi@unito.it
E. Perassi insegna lingua e letteratura ispanoamericana all’Università di Torino